lunedì 27 maggio 2013

La Grande bellezza : Un Sorrentino pretenzioso e noioso e un sempre uguale a se stesso Toni Servillo.


A Cannes Paolo Sorrentino , come già accaduto con Gomorra di Matteo Garrone, perpetra un grande inganno quello del cinema che vuole emulare la letteratura.  La Grande bellezza: un Sorrentino pretenzioso e noioso e un sempre uguale a se stesso Toni Servillo. Un inganno di due ore e mezzo circa di estenuante lentezza e di insopprimibile noia, mitigata da un bravo Carlo Verdone e dalle battute facili di Carlo Buccirosso, sullo sfondo una Roma adagiata su se stessa, silente e magnificamente imponente come solo Roma caput mundi può essere. Una Sabrina Ferilli che pure non è dissimile da come è dal vero, nel senso che non recita mai, regala uno spiraglio di un’umanità in un ruolo rischioso. Intorno attori che non brillano per eccezionalità recitativa forse proprio per mancanza di una struttura dei personaggi da interpretare: Iaia Forte, Isabella Ferrari, Pamela Villoresi. Il film si apre con un eserga da Cèline tratto da Viaggio al termine della notte: uno allora  si aspetta la feroce cattiveria e la spietata secchezza dello stile asciutto di Cèline, ma, fin dalle prime battute, ci si rende presto conto che il film annaspa e si barcamena tra una improbabile descrizione della decadenza di un mondo (il nostro ), un’ansia esistenziale legata al sopraggiungere della vecchiaia ( buona parte dei personaggi è over cinquanta, mentre  i protagonisti principali sono over sessanta) e il tentativo di una chiosa sulla letteratura come trucco e finzione che rimanda a Céline ma in maniera grottesca e mai tragicomica.  Paolo Sorrentino, come molti registi prima di lui , tenta  di raccontare Roma pescando nel cuore della sua “nobiltà nera”, aprendo tombe da dove fuoriescono tetre ed improbabili figure della città eterna, esseri notturni ( le vecchie principesse che giocano a carte nell’oscurità) che spariscono all'alba, all'ombra di un colonnato, di un palazzo nobiliare, di una chiesa barocca. Un carnevale escheriano, mai realmente tragico ma solo miseramente grottesco. Vengono in mente altri film di certo più intensi e meglio costruiti. Viene in mente La Terrazza di Ettore Scola del 1980 dove un autoironico Jean Louis Trintignant, sceneggiatore in crisi, era tragico con leggerezza e senza toni caricaturali di Verdone, o una padrona di casa come Carla Gravina, disincantata e realmente intellettuale al cui confronto  Isabella Ferrari è solo una sfocata parodia. Si avverte in tutto il film la necessità di una sceneggiatura forse meglio congegnata e più curata. La visione  della decadenza da basso impero in versione discoteca è scontatissima e ovvia, se si la si raffronta a  Roma di Federico Fellini e le riprese delle feste restano parecchio indietro rispetto a ciò che spesso veramente sono nella realtà, mentre il discorso finale della santa ultra centenaria sulle radici  sconcerta per la banalità dell’assunto. Jep Gambardella sembra  più un gagà che non raffinato dandy e inoltre – lo ripeto- Servillo non mi convicerà mai come attore fino a quando non comincerà a recitare veramente. Paolo Sorrentino indugia troppo in una stucchevole autocelebrazione dell’intellettuale umanista, lontanissimo mille miglia e più dallo «scandalo Céline», che sembra voler essere presente in tutto il film, ma che naufraga miseramente nella trita ovvietà . La profetica lucidità del suo delirio e di uno sguardo che nulla perdona a sé e agli altri, che ha il coraggio di affrontare la notte dell’uomo così com’è, nel film invece si avviluppa intorno  ad alcune frasi di Jep Gambardella gettate lì come aforistiche”perle di saggezza” da rotocalco: “Ho sessantacinque anni e non posso più perdere tempo a far cose che non mi va di fare” . Quella che sembra poesia alta alla fine si rivela per quello che è: luoghi comuni sull’età, sui ricchi, sulla religione, sulla vita. Sullo sfondo arte ed architettura a profusione con sottofondo di canti gregoriani: dal Galata morente dei Musei Capitolini alla Fornarina di Raffaello della collezione di Palazzo Barberini. Dei film di Paolo Sorrentino mi è piaciuto, a dirla tutta, solo This Must Be The Place ma lì c’era un grandioso Sean Penn, che faceva  battute memorabili a raffica , per non parlar del trucco, delle unghie smaltate, della camminata con il trolley , mentre la storia c’era tutta ed era costruita con grande ingegno e grande bravura interpretativa dei personaggi. Credo, per concludere, che  alla fine che tra i molti limiti di la Grande bellezza, oltre alla oscura sospensione di alcune frasi quali quella per esempio, sulla “fessa” che piaceva agli amichetti di un giovanissimo Jep Gambardella, mentre a lui piaceva “ l’odore della casa dei vecchi”: cosa ci vuole dire Sorrentino? Che bisogna acquisire una sensibilità alla vecchiaia  e alla caducità per meglio comprendere il mondo? Ma non è maledettamente ovvio anche questo, soprattutto detto da lui che di anni ne ha 43? Céline – e lo cito perché credo che sia stato il nume ispiratore di Sorrentino in questo film - ha saputo trasfigurare la materia incandescente della vita attraverso l’invenzione di un linguaggio che ha tutta l’immediatezza del «parlato» quotidiano, capace di dar voce, tra sarcasmi e pietà, alla tragicommedia di un secolo che veniva spazzato via da terribili conflitti. Il suo Viaggio al termine della notte sembra riassumere in sé la disperazione del Novecento, ma è in realtà un’opera potentemente comica, esilarante, in cui lo spettacolo dell’abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell’incubo che rappresenta. Nel film di Paolo Sorrentino tutto questo non c’è: c’è solo una Roma cafonal alla D’Agostino ( e dunque siamo nell’ovvio addirittura televisivo) e lui, Sorrentino/Jep Gambardella si prendono troppo sul serio, con una preponderante vena di fatalismo napoletano, che, lasciatemelo dire risulta essere alla fine il peggiore dei luoghi comuni e si esce dalla sala, dopo aver visto il film, mogi e silenziosi. Se a Cannes lo premieranno, avranno premiato un film non eccezionale, così come avvenne per Gomorra.

Franco Cuomo


5 commenti:

  1. Franco, penso che Gomorra sia di Garrone però, non di Sorrentino.
    Condivido il giudizio su "This Must Be The Place", ma non quello su Servillo: mi ha molto meravigliato la sua metamorfosi, in "E' stato il figlio", rispetto al personaggio flemmatico ed incazzoso dei vari Tony Pisapia, Titta De Girolamo, ecc... Ed "Il Divo" costituisce, a mio parere, un'impresa riuscitissima per entrambi, Sorrentino e Servillo. Andreotti è un personaggio che ostenta tediosità per celare spericolatezza, un uomo annoiato e bonario quanto ambizioso e spietato. Li c'è tutto in assoluta coerenza e con un ritmo bello incalzante.
    Quanto a "La Grande Bellezza", ancora non l'ho visto. Ma ho letto una critica di Malcolm Pagani che mi aveva, in qualche modo, trasmesso alcuni sentori cui hai dato una conferma.

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  2. PS: Ad Andreotti ho imperdonabilmente concesso il tempo presente e ne faccio ammenda. Nel bene, alla morte non ci si crede.

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  3. Chiedo venia Gomorra è di Matteo Garrone

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  4. Ti ringrazio Carlo, ho provveduto e sono stato tratto in inganno proprio dal viso di Toni Servillo. Su di lui mantengo il mio giudizio: a me sembra che reciti sempre la stessa parte se lo confronto agli attori italiani famosi chessò: Tognazzi, Mastroianni, Sordi, Manfredi o a quelli stranieri Sean Penn appunto o Daniel Day-Lewis, lo trovomolto limitato, stereotipo, ingessato sempre in una stessa cadenza recitativa. Ma è una mia opinione.

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  5. E' innegabile che le maschere indossate da Servillo nei film di Sorrentino siano tutte, nei tratti più evidenti e grossolani, molto simili. Una certa differenza, però, esiste nei dettagli che ha soltanto un personaggio psicologicamente tridimensionale, come di solito mi è parso siano quelli di Sorrentino. E Servillo mi è sempre sembrato molto bravo ad interpretare sottilmente, senza sottolinearle, queste sfumature (ad esempio, mi è piaciuta molto la dolcezza di "Le Conseguenze dell'Amore").
    Poi, da persona che non capisce nulla di cinema, mi avvalgo del ricorso al caso limite, alla prova del nove: il ruolo inconsueto, la maschera tragicomica di Nicola Ciraulo. Il rischio, sempre a mio avviso (e non so a che titolo mi pronuncio), era quello di strafare. Ma il personaggio non mi è mai sembrato forzato, caricaturale.
    Su Sean Penn sono totalmente d'accordo, lo ripeto con l'entusiasmo di chi ieri sera lo ha visto "Milk" e in "21 grams" di Iñárritu.

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