lunedì 25 novembre 2013

Se fossimo tutti meno stupidi e superficiali


Dal profondo del dolore, sulla necessità di accettare la fine della vita: “ non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché dobbiamo morire”, così ci ricorda Michel Foucault [1], affrontando i tre più insormontabili tabù delle nostre società: la vecchiaia, la malattia, la morte . Sembra tutto razionalmente accettabile, tutto così “naturale”, tutto “nelle cose”, specialmente quando una persona si fa molto vecchia, ma non è così, per lo meno non è così specialmente quando si attivano le dinamiche degli affetti, quando sei coinvolto in prima persona, eppure bisogna cominciare proprio da qui e, ripercorrere il significato dell’esistenza e il senso stesso della vita . L’altra sera mi capitò di vedere in TV Anna Marchesini, mitica interprete teatrale di grande forza espressiva, consumata da una devastante artrite reumatoide. Ero solo, in poltrona, oppresso da un pesante senso di angoscia, come mi capita da un po’ di tempo in qua. Di là, mamma, la mia mamma, che si lamentava nel sonno dei quasi suoi ottantanove anni, come fa ormai tutte le sere, tutte le notti. Anna  Marchesini parlava dal di dentro della sua malattia, non nascosta, né esibita: semplicemente vissuta come un momento della sua vita e ha raccontato della sua scrittura, del suo teatro e della morte come di un altro momento della nostra vita, perché, sempre di vita si tratta. La ascoltavo e pensavo che ci sono argomenti tabù che si cerca di rimuovere. Pensavo che se le strade si riempissero di gente malata, o vecchia, che se la TV invece di mostrare sempre corpi levigati, giovani e belli, mostrasse le donne e gli uomini come realmente sono,forse cambieremmo la nostra testa, ma soprattutto il nostro atteggiamento verso la vita e verso la morte e anche verso noi stessi. Invece nella nostra società, la malattia è una vergogna e la vecchiaia pure lo è e si nasconde la prima e la seconda. Le  si isola entrambe -per la vergogna- in luoghi di sofferenza e di segregazione: gli ospizi, le case di cura, le cliniche, gli ospedali. Espelliamo dalle nostre vite i segni tangibili di ciò che invece fa parte della vita e sono essi stessi la vita. Anna Marchesini parlava e io mi sono sentito piano piano una serenità interiore, anche se ero consapevole di che tipo di notte mi aspettava. Continuiamo a vergognarci della malattia, nascondiamo asetticamente la morte e  vediamo solo gente sana e giovane e bella, che è pure giusto, ma non è la verità, o meglio: la verità della vita non è solo questa: quando incontriamo qualcuno che sta male siamo presi da un turbamento fuori misura, come se non sapessimo che quello è il nostro specchio. Così il dolore per la vecchiaia di mia mamma sempre più stanca mi riporta a una sua accettazione, benché non sia facile, a meno di non inserirsi in un processo incessante che è la vita stessa, così miei due infarti. Cerco di adeguarmi ai cambiamenti del mio corpo che, paradossalmente sono più facili da accettare che non i cambiamenti del corpo di mia madre o di una persona che si ama profondamente, perché il tuo corpo ha reazioni, mentre non puoi fare nulla per il corpo di un altro, se non assistere impotente . Ecco, mi sembra che il tabù della nostra epoca sia la mancanza di consapevolezza delle cose importanti e tragiche e essenziali della vita: cioè queste cose, contro la banalità di un mondo o di comportamenti fatti da smile stupidi come faccine perennemente sorridenti.
Forse bisognerebbe parlare di queste cose non in modo macabro o funebre ma come un fatto vitale, perché la morte e la vita infine sono esattamente la stessa cosa. Ed eccoci ritornati al punto di partenza: nella visione greca dell’uomo la vita si concede finché non sopraggiunge la malattia e la morte e la filosofia- che mi ha sempre soccorso - serve anche a ricordarci che, necessariamente,  noi non moriamo perché ci ammaliamo ma ci ammaliamo perché siamo mortali e che questo incessante movimento non è altro che la vita stessa.



[1] Michel Foucault,  Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane oppure con sottotitolo Una archeologia dello sguardo medico (1963), trad. Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 1969.

giovedì 21 novembre 2013

un ricordo incredibile e tanta nostalgia






Quattro foto storiche. Franco Autiero portò Annibale Ruccello  a Vico Equense a Piazzetta Croce, le foto sono di proprietà
 del maestro Lello Bavenni che per quell'occasione , insieme a Manganaro, tenne una mostra di suoi lavori. Mamma veniva rappresentato per la prima volta sul territorio nazionale.Le storie delle quattro figure sembrano ritagliare persone della vita quotidiana. Ruccello stesso, infatti, scrive: "Tendo molto a costruire per linguaggi anche i personaggi. Spesso individuo prima un modo di parlare e poi intorno a quello costruisco il personaggio vero e proprio. Alla fine mi accorgo di aver riprodotto delle stereotipie verbali che sono del mio ambiente, di mio padre, di mia cugina, pur cercando di evitare, come massimo dei mali, di far autobiografia a teatro. Finisco comunque per raccontare il mio ambiente".

Tai Chi, Buddhismo, orientalismo: le pratiche occidentali dell'indifferenza etica e sociale



La boxe della suprema polarità è anche abbreviato in Taiji o Tai Chi.. Soka Gakkai (è il nome di un movimento religioso giapponese di matrice buddhista costituitosi nel XX secolo, in origine come una delle associazioni laiche della scuola buddhista giapponese Nichiren Shōshū . Il Buddhismo tibetano è una delle correnti della dottrina buddhista (ed in particolare del Buddhismo Vajrayana), diffusasi in Tibet. Molte di queste “pratiche” o discipline, sono diventate l’habitus di molti uomini che una volta si dissero socialmente impegnati: militanti, intellettuali, artisti. Meraviglie dietetiche del Tai Chi associate ad esercizi respiratori e tanta indifferenza ( strafottenza?) verso il mondo, questa è la buona pratica del benessere individuale ( individualismo super egotico celebrato) . Stessa storia per chi recita mantra e sorride sempre bendisposto agli altri facendo però attenzione a starsene alla larga: compassione sì, ma facendo attenzione a rafforzare il proprio io e dunque, anche in questo caso, predominio del distacco e della distanza. Fu il motivo per il quale mi allontanai del buddhismo. Per tutte queste pratiche e per chi le pratica mi viene in mente un’interpretazione acuta e originale fattane da un filosofo nostrano poco noto ma sicuramente profondo conoscitore dei tic e delle mode dell’occidente decadente e dei suoi intellettuali dolenti: Gian Giorgio Pasqualotto. Per il nostro, il buddhismo e le pratiche monastiche associate a esso in qualche modo sono una sorta di illuminismo orientale, ovvero il consolidarsi e il rafforzarsi della coscienza individuale che tanta importanza ha avuto da noi per la società liberale e per il consolidamento del capitalismo. A tal proposito è utile riflettere su come quest’ultimo abbia spostato e si sia adattato con estrema facilità nelle società dell’estremo oriente. Ci sono tempi in cui la palude del senso comune tende a consolidarsi in isole. Allora la navigazione dell'intelligenza si fa pericolosa, perché si illude di poter viaggiare spedita tra queste terre, mentre ben presto vi si incaglia. Anche gli insegnamenti del Buddha hanno subito le conseguenze di periodiche basse maree del pensiero. L'ampiezza con cui essi sono dilagati, per esempio, lungo le coste della cultura occidentale contemporanea è stata spesso accompagnata da una riduzione della loro profondità.
Bisognerebbe ritornare ai luoghi originari, dove sono minimi i fremiti delle mode e i brusii della chiacchiera. E in tal senso non è illegittima l'inconsueta associazione tra «illuminismo» e «illuminazione» andando alla radice linguistica e concettuale dei due termini. E allora, a proposito di intellettuali e artisti che oscillano tra arti marziali orientali, Tai Chi e buddhismo, mi viene da citare di nuovo parafrasandolo, l’incipit di un noto poema: “  "Ho visto le menti migliori della mia generazione inebetite dall’individualismo e dalla strafottenza attente solo al loro benessere interiore, nude e isteriche”, mentre, per tutto il resto c’è mastercard: evviva il capitalismo globale!


giovedì 14 novembre 2013

Sarà mai possibile una rinascita fosse anche soltanto letteraria o filosofica? NO, io sostengo, no per il momento.

Jilles Deleuze


 "Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche... ". Così si apriva il poema beat di Allen Ginsberg Houl  ( Urlo ) che fu letto per la prima volta nel 1955 nella Six Gallery di San Francisco. Una generazione distrutta dal maccartismo, che si annichilì nel consumo di droghe di ogni genere, un periodo che segnò la fine dell’esistenza del comunismo negli Stati Uniti d’America e del sogno di sperare in una società diversa da quella capitalista. Oggi in Italia ci vorrebbe qualcuno che riscrivesse un’opera analoga, ma non ci sono né figure intellettuali di quello stampo e quelli che si presumono esser tali sono assuefatti e annichiliti alle e dalle frequentazioni col potere. Quelli che avrebbero potuto scrivere qualcosa del genere sono già morti da un ventennio e invece del maccartismo noi abbiamo avuto il berlusconismo, una parodia isterico consumistica di anticomunismo e quel sogno è sparito definitivamente anche da noi. La storia si sa si ripete sempre due volte, una volta come tragedia e un’altra volta come farsa e oggi l’Italia e gli italiani sono spariti nel gorgo di un pensiero mediocre, truffaldino e bugiardo. Non si riesce più ad immaginare niente altro che ciò che si vede e si sente sui media, e : "Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico", altra profezia proveniente dagli States e annunciata più di quarant’anni fa. Volevamo diventare tutti americani. Anche io l’ho volevo, ma il mio personale american dream inseguiva il sogno dell’arte e della letteratura appunto.  Oggi, siamo diventati la loro parodia, obbligati in uno spazio mentale  dove ogni possibilità di immaginare un mondo diverso da quello che ci presentano essere come l’unico possibile è naufragata.  La rincorsa di bisogni politici indotti e veicolati dai media si è trasformata in bisogni ed aspirazioni individuali, la soddisfazione dei quali  viene fatta passare come lo sviluppo degli affari e del bene comune, ed entrambi appaiono essere la personificazione stessa della ragione.  Così mentre le menti americane si annichilirono e si autodistrussero nelle droghe è anche vero che quegli “hipsters dal viso d’angelo” ci consegnarono un momento alto di letteratura mentre a noi non è toccato neanche questo. Ma la crisi economica iniziata nel 2008 decreterà l'insuccesso e il definitivo tramonto di questo pensiero unico liberista, come sostengono da più parti sparpagliate comunità no global? Questa crisi potrà davvero rappresentare un punto di svolta rispetto alle politiche di privatizzazione, liberalizzazione finanziaria e smantellamento dei diritti sociali e del lavoro che hanno imperversato a livello mondiale nell'ultimo trentennio? Secondo me no, così come neanche le tesi troppo generiche – a mio avviso – di Alain Badiou fondate su un volontaristico anelito alle ribellioni sociali, tesi per altro già smantellata da uno studioso serissimo e molto più attento di Badiou quale era Eric Hobsbawm in suo storico ed importante saggio I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, edito in Italia da Einaudi, in un ormai preistorico 1965. La messa in crisi del pensiero unico secondo il mio punto di vista dovrebbe coinvolgere più elementi e più piani discorsivi e concettuali diversi: politico, economico, sociologico ma soprattutto filosofico. Sul piano politico, bisognerebbe rintracciare (rifondare?) un’entità politica antagonistica a questo sistema di rappresentanze che organizzasse tutte quelle volontà di rivolta sparse, delle quali parla Badiou. Su quello economico bisognerebbe seriamente considerare l’ipotesi di una messa al bando del sistema bancario, ovvero parlare senza più mezzi termini di banditismo bancario e finanziario e, senza rispolverare il collettivismo economico, imporre a questi centri di strozzinaggio legalizzato un controllo da parte dei governi: Su quello sociologico attivare strategie di dissuasione attraverso lo smantellamento dei messaggi dei media, ovvero smascherare con una educazione alla critica fatta nella scuola e nell’università il sistema di bugie ordito dai media e che è funzionale ai primi due livelli discorsivi il politico e l’economico. Resta per ultimo, ma non ultimo il piano filosofico. Il modo di pensare la filosofia oggi, dovrebbe essere quello antico ovvero: avvalersi del dubbio, del criticismo e della verosimiglianza ermeneutica per l'uomo in rapporto con le cose reali e fallibili e soprattutto con la natura: “se tocchi una cosa in quella cosa ci sei tu”. Dovrebbe essere quella filosofia che indaga il modo di pensare e analizza la logica e il senso delle parole. Dovrebbe essere antiaccademica, teoretica e dialogare con altre discipline. Insegnare a praticare la vita, come un tempo si faceva nelle scuole greche. Senza indicare scopi e colpe da espiare, se non la pienezza di senso nel proprio dasein –  del proprio esserci - per un degno percorso quotidiano. Purtroppo l'attuale società è controfilosofica e allineata alle temperie dei tempi: illusi di sapere e di essere felici, non si vuole capire, pensare, chiedersi cosa implicano certi comportamenti. La cultura laica postmoderna e tutti i più grandi pensatori di ieri e di oggi sono stroncati a priori come “cattivi maestri”, ma soprattutto come inutili. La dialettica costruttiva, ovvero il modo di far filosofia, dovrebbe poter incrociarsi con riferimenti a fatti di cronaca e verificare il ruolo e i doveri della filosofia. Cominciare di nuovo a chiedersi  cosa significa conoscere, e discutere della verità e della menzogna, dell’attendibilità o inattendibilità dei media, di radio, di politica, di scuola, di pregiudizi, di certi equivoci di alcune teorie e movimenti, del confronto con le altre culture e con la spiritualità orientale, di preferenze sessuali, d’amore, del conformismo ipocrita che ci impedisce di voler costruire nuovi scenari privati e pubblici ispirati alla consapevolezza e all’onestà. Insomma un gran lavoro. Non una filosofia della vita quotidiana,  per parafrasare Agnes Heller, ma filosofia per la vita quotidiana, benché non solo. Una filosofia autenticamente democratica. Non chiacchiere sparse, ma conversazioni profonde. Pensare filosoficamente oggi significherebbe poter praticare questo pensiero e il farlo sarebbe già un buon inizio.

Franco Cuomo

martedì 12 novembre 2013

CAMPANIA INFELIX. PROVINCIA DI NAPOLI: LA TERRA DOVE SI MUORE PRIMA E CON PIU’ FACILTA’.




Avrò scritto centinaia di lettere come questa e ancora mi rimane la forza di scriverne un’altra, come ultima reazione a una violenza intollerabile che ormai è diffusa dappertutto a Napoli e provincia. Ti senti oppresso da un’immane e brutale gestione camorristica dell’esistenza, nella totale indifferenza di una popolazione succube e connivente: Si, perché tutti siamo coinvolti chi più e chi meno in questa gestione della vita e omertosamente ne facciamo parte. A Napoli e provincia non si muore maggiormente più delle altre parti solo di cancro, per i rifiuti tossici sversati ovunque, per i fumi venefici esalati dalla terra dei fuochi, a Napoli e provincia si muore maggiormente anche di stress emotivo e cardiaco causato dalle vessazioni continue esercitate da abusi e disservizi vissuti sulla propria pelle tutti i giorni per il cattivo funzionamento dei trasporti pubblici, per lo sfascio dei servizi sanitari, per gli abusi di potere e per le ingiustizie economiche perpetrate nella pubblica amministrazione a danno di chi non vede il proprio contratto rinnovato da un decennio e deve invece assistere a emolumenti milionari e incarichi inutili, elargiti a dirigenti altrettanto inutili che trastolano col potere politico: il vero grande tumore di questa città, di questa provincia, di questa regione. Ho 63 anni, ho avuto due infarti, subisco violenza ogni qual volta che salgo su un treno della Circumvesuviana ( due volte al giorno) e i mie infarti sono anche una malattia causata da tutto questo al pari del cancro nella terra dei fuochi, ma non ne parla nessuno. Da qualche parte ho letto a proposito di un discorso sulla morte che tutti nascondono, che solo chi si ammala di cancro sembrerebbe dover morire per forza: non è vero! Io convivo con l’idea della mia morte in ogni più piccolo istante della mia giornata. Ieri sera ho temuto di morire quando in una calca impazzita, pigiati come bestie gli uni sugli altri aspettavamo il direttissimo per Sorrento delle 17.41: I display che segnalavano le direzioni erano spenti, vari treni erano stati soppressi: ho avvertito un senso di asfissia e di soffocamento: poi alle 18.10 ci hanno fatto salire su un convoglio, la ressa per il posto a sedere, spinte  e urla, dopo pochi minuti che c’eravamo tutti seduti un altoparlante annuncia che il Sorrento – dal binario 9 dove eravamo stati inviati tutti qualche minuto prima, sarebbe partito dal binario 8: altre spinte, altre corse: siamo partiti finalmente alle 18,15, il direttissimo è stato convertito in un lentissimo diretto e sono arrivato a casa un’ora dopo. Questo succede tutte le sere. La Circumvesuviana sopprime treni e corse perché non avrebbe più materiale ferroviario in condizioni tecniche adatte a viaggiare, questo è il motivo ufficiale, ma continua a erogare gli stipendi a un personale gonfiato a dismisura con assunzioni politiche e clientelari, quello stesso personale spessissimo insultante e maleducato.   Ci sono pomeriggi, quando attraverso Piazza Garibaldi, venendo da Corso Meridionale dal lato della Stazione Centrale, tra il clangore dei clacson assordanti e il puzzo di piscio che esala dalla gomma nera dei marciapiedi, che penso che questa città possa sprofondare da un momento all’altro, travolta da un’umanità degradata e complice: un’umanità incattivita, indifferente, torva, che non ha voglia di umanità, che spinge, urla, cammina rapida verso mete altrettanto sporche, altrettanto polverose. Allora scrivo questa centesima lettera inutile per darmi uno schiaffo, per reagire all’indifferenza e al senso di impotenza di questa gestione camorristica dell’esistenza che ha ucciso la vita e la gioia di vivere. La scrivo per espellere la rabbia che altrimenti indirizzerei contro il mio corpo con i rischi che conosco, ma mi aiuta solo fino ad un certo punto: Poi torni a casa e ci sono i problemi di sempre, poi vai in ufficio e anche lì realizzi la torva presenza delle modalità camorristiche della gestione delle vite: a chi tanto e a chi ( i molti ) niente e anche qui bugie dei politici e finti riassetti organizzativi che mascherano le politiche clientelari di sempre. Allora ti chiedi veramente cosa è diventata la vita in generale in questa città, in questa provincia, in questa regione. La vita in questo posto non vive- per parafrasare Adorno-, anzi qui si muore con più facilità che altrove, ma deprime avere la consapevolezza che tutti lo sanno e nessuno fa niente per invertire questa tendenza innaturale e perversa e così, tutti siamo complici di un processo irreversibile di omertà diffusa e di silenzi complici e pesanti come macigni.

Franco Cuomo




giovedì 7 novembre 2013

L'ornitorinco che non è geloso di Kant


RILETTURA ( a sprazzi, per una cosa alla quale sto lavorando). Pubblicato nel 1997. Sconsigliato ai molti. Consigliato a chi crede che la filosofia possa essere raccontata senza la storia e a chi ama i rebus. 
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" L'ornitorinco, che ama questo genere di cambiamento nel ritmo della scrittura, è rimasto molto colpito dal breve trattato di teologia "La storia dell'arcangelo Gabriele" e dal paragrafo di taglio francofortese dedicato alla critica dell'autoritarismo e del sadismo degli adulti nei confronti dei bambini ("Storia di Pinco"). Ma a strappare l'applauso teoretico dell'ornitorinco è soprattutto il brano ermeneutico "La vera storia del sarchiapone" (dedicato all'interpreta-zione del grande classico di Chiari e Campanini. Dal punto di vista dell'ornitorinco, il sarchiapone è il suo gemello, il suo doppio negativo, l'alter ego che cade oltre lo specchio. Là dove l'ornitorinco ha troppe qualità, il sarchiapone non ne ha nessuna. Tuttavia entrambi sono rompicapi per gli uomini e per le loro strategie cognitive. Questo piace molto all'ornitorinco, che va in sollucchero al pensiero che gli si sia dedicato un libro così (ha il sospetto che il punto di vista dell'autore sul mondo non sia poi così lontano dal proprio). È talmente soddisfatto da non provare nemmeno troppa gelosia per Kant."


sabato 2 novembre 2013

COM'ERA VERDE QUELLA VALLE





Mi piacerebbe scrivere un libro, partendo da queste quattro foto, e andare a definire che cosa significhi più memoria del paesaggio e paesaggio e se, l’attaccamento ad un immagine come quella del passato sia una nostalgia o significhi che quella foto rimandi a dei valori che forse sarebbe stato il caso proteggere e se le parole turismo e modernizzazione non siano – oggi-  manifeste azioni di rapina e di sfruttamento del territorio. E’ vero che il paesaggio si modifica nel tempo, ma siamo sempre più consapevoli del fatto che il paesaggio italiano è un bene prezioso da difendere per se stesso, perché tanto ha contato nella immaginazione di artisti e viaggiatori del passato, e anche perché costituisce lo spazio in cui si inseriscono tanti capolavori architettonici e naturalistici. Ci è anche sempre più chiaro che oggi dovremmo difendere il nostro paesaggio perché troppe volte, lasciamo che esso venga manomesso e irrimediabilmente distrutto o imbruttito. Le persone di media o buona cultura collegano d’istinto l’idea di paesaggio ad un’idea di valore estetico, ma spesso per la stragrande maggioranza degli operatori turistici o per i tecnici (architetti, urbanisti, politici, amministratori) il fatto che nel paesaggio abbiamo a che fare anche  con valori estetici è una pietra di inciampo, una banalità, un equivoco una cosa che non porta soldi. Nel migliore dei casi la questione è liquidata con un riconoscimento formale, sbrigativo, e poi si passa alle cose serie, cioè a tutto il resto come nel confronto che potete vedere in queste foto e che ci mostrano com’era quel luogo un tempo e com’è ora grazie ad interventi che si fregiano di essere turistici.
Su questa piana si sta consumando già da un po’ di anni, una lotta tra amministrazione comunale, e due proprietari confinanti, tra contenziosi e ricorsi. Qualche giorno fa il giornaletto locale AGORA’ esultava per l’assoluzione di uno dei proprietari che avrebbe contribuito a “trasformare” quella che era una volta una piana verdeggiante in una landa desertica. In sostanza, la storia è questa. Fu emessa una ordinanza di demolizione del 2007 dal Comune contro i sigg. De Rosa-Beneduce,  per vari abusi edilizi realizzati nella piana di Aequa- abusi elencati tutti nella sentenza emessa dal tribunale .  Gli stessi successivamente presentarono un ricorso al TAR. Un vicino, l’ing.  Pia sarebbe poi intervenuto ad opponendum, a sostegno del Comune. Nel 2009 lo stesso Comune revocò l' ordinanza del 2007 e quella  successiva del 2008, che già in parte "alleggeriva quella del 2007". Il Comune avrebbe detto nel 2009 che la coppia in questione avrebbe messo  tutto a posto e che gli abusi sarebbero stati eliminati. L’ing.  Pia nel 2010 presenta un suo ricorso al TAR contro questo provvedimento emesso dal Comune che avrebbe sostenutoche gli abusi non c’erano più e contro il provvedimento che avrebbe autorizzato il cambio  di destinazione d'uso. Il TAR, di fronte a ciò, avrebbe accolto solo in parte il ricorso dell’ing. Pia, ma quella che avrebbe accolto sarebbe una parte importante. Riguarderebbe, infatti, l'illegittimità delle ordinanze comunali del 2009 che revocavano quelle di demolizione del 2007.  In effetti i sigg. De Rosa- Beneduce avrebbero – secondo quel ricorso-  sì eliminato qualcosa, ma non avrebbero rimesso a posto tutto ciò che si sarebbe  dovuto fare , come avrebbe efficacemente  sostenuto il perito del TAR.  Lo stesso TAR non avrebbe accolto, invece, il ricorso dell’ing. Pia in relazione al mutamento di destinazione d'uso. Ecco, questa sarebbe l'unica verità dell'articolo del giornaletto locale AGORA’. Tra l'altro, il perito del TAR  farebbe  riferimento, per alcuni interventi abusivi, alla decisione sulla compatibilità paesaggistica per le opere realizzate abusivamente. Questa compatibilità poi, non sarebbe stata decretata dalla Soprintendenza, anzi, questa avrebbe espresso un diniego, nonostante la Commissione Edilizia Comunale avesse provato a farla passare. Lo stesso TAR successivamente  respinge il ricorso della dei sigg. De Rosa- Beneduce contro l'ordinanza di demolizione del 2007.
Ora come tutto ciò possa essere stato fatto passare dal giornaletto  per una vittoria dei signori in questione non si capisce ancora. I signori  dovrebbero ancora demolire molti abusi edilizi in quella piana, questa sarebbe stata la verità da raccontare. Probabilmente se il comune avesse proceduto di ufficio, come avrebbe potuto, invece di chiedere ai signori in questione  di demolire, le opere sarebbero già state eliminate da un bel po’. Così come continuerà ad andare  avanti il processo a Sorrento per gli abusi realizzati. Oggi si esulta per una mezza verità, ma resta un dato inequivocabile: quella pianura verdeggiante è stata persa per sempre e niente e nessuno la restituirà più. Ora è vero che tutto si modifica col tempo, ma, qualcuno avrebbe dovuto fare delle valutazioni sull’importanza estetica e naturalistica di quel paesaggio, invece questa cosa non l’ha fatta nessuno, la pianura è stata orrendamente diserbata e poi sono stati ingigantiti i volumi di un vecchio casolare rurale. La questione amministrativa oggi appare irrilevante, perché, ad essere sensibili, cosa che ormai è raro trovare in giro-  non ci interessano i vincitori e i vinti, in questa querelle ma solo sapere se chi ha commesso tutto ciò  si senta responsabile della  distruzione di un patrimonio che si sarebbe dovuto preservare.

Franco Cuomo - VAS- Verdi Ambiente e Società