martedì 17 settembre 2013

L'uomo sta sparendo?


L’uomo sta sparendo? Sembrerebbe di si, intanto dopo Foucault e Derrida  che hanno decretato finito l’umanismo/umanesimo, l’uomo come soggetto non ha più una sua definizione certa. Questa fase della storia mi procura ansia e incertezza emotiva. Il posto del soggetto sembrerebbe essere stato preso dalle moltitudini: siamo passati a una fase in cui gli spostamenti decretano la distruzione della soggettività. I “molti” sono il soggetto di quest’era: non c’è più tempo per la singolarità? Non c’è più tempo per l’individualità? Sembrerebbe di sì. Dalla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento fu Jacques Derrida che spostò i suoi interessi verso i temi etici e politici, ancora una volta affrontandoli in maniera poco tradizionale, cioè con uno stile in cui poco spazio era lasciato alla "teoria" uno stile che può essere inteso solo alla luce dei presupposti fondamentali della decostruzione: fu lui che coniò, per far fronte alla sparizione del soggetto le “politiche dell’amicizia” che sovvertirono, in filosofia, l’idea di stato/nazione. Gli quegli anni costituirono un periodo di particolare vivacità a livello filosofìco-politico, poiché in essi si sviluppò quel dibattito tra moderno e postmoderno che coinvolse anche il decostruzionismo, e il cui avvio fu segnato dal discorso di Jürgen Habermas, "Il moderno: un progetto incompiuto", pronunciato nel 1980 in occasione del conferimento del premio Adorno. Secondo la tesi di Habermas, che condivido totalmente, il postmoderno sarebbe stato contraddistinto dalla rinuncia all'ideale emancipativo della modernità, le cui radici si trovano nel razionalismo illuminista, ripiegando verso una forma ambigua e pericolosa di neoconservatorismo, che caratterizzerebbe soprattutto la filosofia francese contemporanea e i cui ispiratori sarebbero principalmente Nietzsche e Heidegger. Credo che Habermas[1] avesse ragione allora e oggi più che mai: la scena del politico oggi è precipitata nelle braccia di un bieco conservatorismo economico che ha stritolato in una morsa di necessità “l’esistenza dell’etico”: Al valore del soggetto/uomo si è dato la precedenza alla sua decostruzione finalizzata alla sopravvivenza dell’economico, da qui, l’importanza attribuita alle “moltitudini” anonime e al valore numerico della vita da parte di chi amministra gli assetti del mondo. Ma credo però che avesse ragione anche Derrida, soprattutto nell’ultima fase del suo pensiero quando rivolse la sua attenzione ai fenomeni contemporanei di attraversamento delle frontiere, da quelli "normali" dovuti alla cosiddetta "globalizzazione" o a emigrazioni fisiologiche a quelli "eccezionali" dovuti a movimenti di profughi, a spostamenti o deportazioni etniche, di cui le vicende di fine Novecento hanno offerto numerosissimi esempi (dal Ruanda al Kosovo). Da questi fenomeni – dovrebbe poter venire fuori una " democrazia a venire " che non intende chiudersi sullo stato di fatto delle democrazie occidentali, ma che vuole dischiuderle appunto sull'avvenire, su un futuro la cui riflessione etica dovrebbe essere tutta centrata su una fenomenologia dell'altro. Un compito arduo poiché, se una democrazia a-venire vuole davvero rispettare l'alterità dell'altro, non può mai preventivamente identificarlo, non può mai dire "che cosa" esso sia, non può pretendere di sapere che cosa avverrà, non può anticiparlo, può solo accoglierlo come si accoglie un ospite inaspettato: " senza questa desolazione, se proprio si potesse contare su quel che viene, la speranza non sarebbe che il calcolo di un programma. Se ne avrebbe la prospettiva, ma non si attenderebbe più nulla ne nessuno. Il diritto senza la giustizia[2] ".



[1] Jurgen Habermas, Il discorso filosofico dulla Modernità, Laterza Editore, 2003;
[2] Jacques Derrida, Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina Editore, 2006;

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