mercoledì 4 marzo 2020

LA CUPA di Mimmo Borrelli, Napoli, Teatro San Ferdinando, fino all’8 marzo 2020, ore 21




“ Severa ‘i sant’Anna/ Severa r’u vuosco!/Severa te’nganna/ Severa r’a pantosca/Severa ‘ammiez ‘ ccoscie/Severa t’ ‘ a soscie/Severa t’abbrioscie/Severa t’accanosce/Severa, chisto è ‘u puosto/Severa, ma comm’ ‘u tenco tuosto/Severa vengo ‘nterra/pe’ semmenà na guerra!!/Severa, mo sburramme/Severa, ma comme ce sciuliamme/ Mbaccia c’’u sgizzamme/ e annure ce ne ghiamme/Severa r’’a violenza/ Severa r’’a potenza/*

Ieri sera sono andato a vedere La Cupa di Mimmo Borrelli al San Ferdinando. Devo dire subito, che non lo vorrei rivedere mai più e che, come per Napucalisse, anche in questo caso, ma con effetti più lunghi e fastidiosi ad un cero punto volevo alzarmi dalla poltrona e andarmene via. Sia chiaro: non nego, il valore narrativo e drammaturgico nello scrivere un testo come quello rappresentato ieri, non nego la disciplina fisica- un lavoro tremendo a cui si sono sottoposti gli attori, non nego il raffinato allestimento messo in scena: l’enorme sfera che mi ha ricordato il cenotafio per Newton di Etienne Louis Boullée che celebrava la scienza sperimentale o la rotonda verità di Parmenide, ma che alla fine era solo una pietra che rotolava per chiudere un sepolcro e le musiche suonate dal vivo di Antonio Della Ragione, risonanze, riflessi, echi e riverberi che rimandavano ora all’India vedica ora alle scarne musicalità contemporanee di Sciarrino. Nonostante tutto questo, io sarei scappato via, dopo un poco mi sono sentito oppresso e dilaniato da quelle urla, da quel sudore, da quella povere che si alzava dal palco e dalla paura evocata di un contagio da Corona virus, una sensazione di soffocante asfissia. Creature mostruose che si muovevano con una gestualità bestiale e primordiale utilizzando un linguaggio che era fatto di sonorità meridionali ma che mischiava puteolano, montese, bacunese, cappellese, fino quasi al dialetto pugliese, alcune volte incomprensibile tanto da faticare a comprendere il dipanarsi della storia, tra blasfemie, bestemmie, coprolalia . Un’umanità che nel voler sembrare animalesca riusciva invece ad incarnare perfettamente il disegno di un umanità dedita al male, nell’ultima parte non ho potuto fare a meno di rintracciare una sorta di compiacimento verso il satanismo che, io credo, Mimmo Borrelli abbia inserito apposta nel racconto per ammantarlo di un’aurea irreale che secondo me già aveva e che invece ha connotazione antropologiche e rammemorative di una umanità sparita, scomparsa, assolutamente arcaica. Per un attimo, la ritmica del recitato e della lingua, ma hanno riportato ai lavori di Franco Autiero, soprattutto la rima baciata di molte filastrocche e mi sono chiesto se Mimmo Borrelli abbia mai letto o incrociato un testo di Autiero, naturalmente quest’ultimo meno violento e blasfemo. Tre ore e quindici di recitazione corporea: il corpo è il vero protagonista della scena più che il testo, ovvero i dieci “vanghi” in cui si dipana la storia ( il vango è il vuoto tra due interstizi riempito da pietrame e materiale di spoglio, ne linguaggio di muratori delle case flegree). Per raccontarci il fallimento dell’alleanza tra Dio e suo figlio, l’uomo, suo figlio incarnato rappresentato, da una croce che veniva portata in processione sulla scena , mentre …forse si coglie una ipotetica possibilità di alleanza tra l’uomo e l’animale Ciaccone ‘o puorc e Maria delle papere. Mimmo Borrelli è sicuramente un attore, regista e drammaturgo tra i più interessanti del panorama contemporaneo , ma a me non mi ha convinto, sarà forse che ho attraversato già esperienze teatrali come le sue: gli anni settanta del secolo scorso e gli anni ottanta hanno fatto scuola e Borrelli che ha quarantun’anni ha cominciato a Castellammare di Stabia nel 97/98, giovanissimo nella Compagnia degli Sbuffi, in una realtà che aveva forte la memoria di Ruccello, di Moscato e di Autiero, al quale ultimo, lo ripeto, le sue cose somigliano. Forse per questo le sue cose non riescono a convincermi, mi sanno di deja vu e non capisco, se come dice per sua stessa ammissione questo spettacolo è un suo sprofondare nel vuoto, un ripetere esperienze raccolte trent’anni fa e riproporre gli stilemi recitativi dell’ antico teatro greco di un tempo che senso ancora ha fare questo teatro in questo modo?


* Traduzione
“Selva di sant’Anna/Selva del bosco/Selva ti inganna/Selva Pantosca (grossa zolla di terreno)/Selva in mezzo alle cosce/Selva che ti soffia/Selva ti brioscia/Selva che ti conosce/Selva, questo è il posto/Selva ma come ce l’ho duro/Selva me ne vengo a terra/per seminar la guerra/Sellva ora sborriamo/Selva ma come ci scivoliamo/In faccia ce lo schizziamo/e nudi ce ne andiamo/Selva della violenza/ Selva della potenza”

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