lunedì 1 giugno 2015

SUGGESTIONATO DA UN CONVEGNO.LEOPARDI FILOSOFO/POETA E IL DISCORSO SOPRA LO STATO PRESENTE DEI COSTUMI DEGLI ITALIANI



C’è uno spazio nella lingua di Giacomo Leopardi  che forse da sempre prediligo rispetto alla lingua poetica: è lo spazio linguistico di Leopardi filosofo, uno spazio spesso saltato se non trascurato dalle antologie scolastiche o da ciò che si fa studiare di solito a scuola, dove, Giacomo Leopardi è collocato all’inizio della poesia romantica italiana. Lo spazio linguistico di cui parlo è racchiuso nelle  4526 pagine dello Zibaldone dei pensieri, meglio noto come lo Zibaldone  ovvero una serie di appunti frammentari scritti tra il 1817 e il 1832 e in un’altra operetta molto ridotta ma non meno importante, mi riferisco al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani composto tra il 1824 e il 1826, cronologicamente coevo alla prima stesura delle Operette Morali che in misura minore anche potrebbero essere incluse in questo spazio filosofico  ma che invece preludono già ai Canti e a componimenti in prosa, divise tra dialoghi e novelle dallo stile medio e ironico. Voglio soffermarmi dunque sul Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani sia per la sua profonda riflessione morale sia per l’acuta introspezione antropologica attraverso la quale Leopardi ci fornice uno spaccato culturale  della società italiana, che sembrerebbe essere stato scritto ai giorni nostri, tanto veritiere e confermate sono le sue analisi. Il Discorso sugli Italiani fu composto a Recanati probabilmente tra la primavera e l’estate del 1824, quando ancora era viva in Leopardi l’esperienza del viaggio a Roma, in seguito alle proposte di collaborazione all’“Antologia” rivoltegli da Vieusseux nelle lettere del gennaio-marzo di quell’anno. Il testo rimase però incompiuto, e in Italia fu pubblicato e conosciuto solo nel 1906. Il Discorso, opera fondamentale nella riflessione filosofico-politica leopardiana (la cui diagnosi sull’antropologia italiana, come ho già detto, è oggi ancora attuale), fa parte di uno stile di pubblicistica molto in voga tra il sette-ottocento detto del piccolo genere letterario, libelli che affrontavano argomenti che si discostavano dall’esercizio letterario tout court  e che di solito appunto o trattavano argomenti filosofici o politici o l’uno e l’altro  insieme come in questo caso che tratta della descrizione dei caratteri nazionali: lo stesso Leopardi cita fra i “precedenti” il romanzo epistolare Corinne ou l’Italie di M.me de Staël (1807) e gli scritti di Giuseppe Baretti. Contesto naturalmente, le valutazioni di De Sanctis e di Croce, ovvero il vecchio filone della cultura laicista italiana, che nega la filosofia di Leopardi, ritenendola scarsamente significativa, non originale né profonda. Il pensiero leopardiano prende l’avvio da una meditazione sull’infelicità in sé, della quale vengono indagate le cause, le dinamiche e le conseguenze. Leopardi così respinge le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo, si ribella alla meschinità del suo tempo e alle convenzioni del suo ambiente, che giudica arido e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in cui gloria e fama, unici antidoti contro il grigiore della vita, erano possibili, conseguibili. Si scaglia con veemenza contro i miti dell’Ottocento, la storia e il progresso, e contro la stoltezza di un secolo che dalla filosofia della storia di Hegel, esalta l’uomo come creatore della realtà. Leopardi era troppo immerso a tradurre Mosco, Lucrezio, Epitteto ed altri grandi classici per approdare alla dialettica hegeliana, approdò però fortuitamente al  Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, e lo stesso Foscolo, divenendone, per i suoi contemporanei, un esponente principale, pur non volendosi mai definire romantico perché di formazione non lo era.  Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista ante litteram o almeno un precursore dell'Esistenzialismo. Per Leopardi si tratta di un antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con forza, affermando che la storia non è progresso, ma regresso dal primitivo stato di natura, buono e felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente. Sono fortissimi i richiami e la conoscenza di Rousseau, che però Leopardi credo non abbia mai citato. Per il Filosofo/Poeta la realtà è illusoria: manifestando un’evidente consonanza con Schopenhauer, Leopardi sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo la realtà niente altro che sogno, come scrive anche  Calderòn de la Barca. Questo concetto è ribadito nelle opere della maturità : le Operette morali e Canti posteriori al 1827. Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si legge: "Sappi che dal vero al sognato non corre altra differenza se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, mentre quello non può esserlo mai".
Dunque queste le radici filosofiche di Leopardi, una filosofia antisistematica e frammentaria che anticipa molte delle filosofie antisistematiche del secolo successivo.
Di questa filosofia è intriso il Discorso.  Il testo è diviso in cinque parti, dedicate la prima ad una introduzione in cui si motiva la necessità di una nuova descrizione dei costumi degli Italiani; la seconda all’analisi delle peculiarità che caratterizzano la società italiana; la terza ad un confronto fra la situazione italiana e quella delle altre nazioni d’Europa, e all’invettiva contro l’esaltazione del Medioevo, quest’ultima, dovrebbe – a mio parere – smantellare la visione di un Leopardi con una sensucht romantica e accreditare una volta per tutte quella di un Leopardi sensista e ancora molto intriso di cultura meccanicistica e illuminista  ; la quarta all’individualismo (“Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia”), alla differenza di costumi tra città e province e alla necessità di promuovere la civiltà “come rimedio di se medesima” (ciò a causa della situazione paradossale dell’Italia, che è troppo poco civile per godere dei benefici della civilizzazione, come Francia Germania e Inghilterra; ma troppo civile per godere ancora dei benefici dello stato di natura, come Spagna Portogallo Polonia e Russia); la quinta infine agli effetti del clima sui caratteri nazionali e alla “decisa e visibile superiorità presente delle nazioni settentrionali sulle meridionali”. Emerge dalla lettura del testo, un’attribuzione che Giacomo Leopardi connota come il tratto specifico degli italiani: un disincanto/disillusione, che farebbe degli italiani il popolo più filosofo dell’Europa di allora, ma, e qui cito testuale, “ questa caratteristica fa si che gli italiani non temono e non curano per conto alcuno di esser o parere diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico,in nessuna cosa e in nessun senso.[…]Quindi non havvi assolutamente buon tuono,o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa.Ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano fa tuono e maniera a sé.  Non avendovi buon tuono, non possono avervi convenienza di società(bienséances). Mancando queste, e mancandola società stessa non può avervi gran cura del proprio onore, o l’idea dell’onore e delle particolarità che l’offendono[…]ciascun italiano è presso a poco onorato e disonorato[…]perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta” [1]. Credo che questo Leopardi sia un intellettuale ancora più sofferto e pessimista di quanto non sia percepibile nei Canti. A questo Leopardi, il mondo opprimente di Recanati, non gli permetteva quella socialità che lui, attraverso corrispondenze serrate, immaginava essere oltre la siepe , ma, quale grande delusione quando si accorge che gli stessi salotti fiorentini  tradiscono quella “ convenienza di società” per un individualismo selvaggio e esasperato. Questo testo può essere affrontato solo con un acuto spirito critico e  rimane deluso il lettore che si aspetti da Leopardi un discorso un po’ folcloristico sugli usi e sui costumi dell’Italia (o almeno di quella a lui contemporanea). Intanto il termine «costumi» ha un senso più ricco e profondo che non «abitudini» o «usanze» (che per lo più consistono in tradizioni ricevute dal passato e non definiscono, se non superficialmente, il carattere di un popolo), e designa piuttosto una cultura, una mentalità e un modo di essere, conseguenti al diverso sviluppo della civiltà e della cultura italiana in seno ai popoli europei, e vale quindi come regola morale o di comportamento, come condotta o modo di vivere.
Dal testo emerge pure che alla base del discorso leopardiano, scritto nel 1824, sta la radicata convinzione che i popoli antichi erano superiori (e più felici) rispetto a quelli moderni retaggio di un illuminismo di stampo roussouviano. E ciò perché la civiltà ha distrutto le basi stesse della morale, e di conseguenza è preferibile una civiltà «media» piuttosto che una evoluta. Perché il progresso (o meglio il pensiero filosofico e scientifico che ne sono la causa) distruggono la sorgente della sola felicità possibile che consiste nell’immaginazione che permette la fuga da una natura matrigna e crudele. Per Leopardi i popoli che riescono spezzare questa oppressione ci sono le popolazioni settentrionali europee le quali  si rivelano superiori in tutto (e non solo nella letteratura e nel pensiero filosofico) perché in loro è più fervida l’immaginazione. «L’unione della civiltà con l’immaginazione è lo stato degli antichi»: in questa frase del saggio leopardiano c’è il suo senso della storia e la sua pratica poetica e letteraria». Detto in altri termini, la filosofia (e la civiltà che essa ha prodotto, specie quella illuminista) ha messo sotto gli occhi di tutti, con tragica evidenza, l’infelicità irrimediabile dell’uomo. Solo le illusioni che nascono dalla fantasia e dall’immaginazione sono in grado di rendere l’uomo, non diremo felice, ma meno infelice, cioè di alleviare la sua tristezza metafisica. Questo spazio linguistico concettuale definisce le sua  premesse illuministiche (e quindi sensiste e infine materialistiche).
Ma Leopardi malgrado lui è troppo italiano per essere un illuminista alla Voltaire e antesignano di una dialettica dell’illuminismo  di horckeimeriana e adorniana memoria, sviluppa poi un discorso contro la civiltà dei lumi, esaltando non la ragione, ma, romanticamente, la fantasia, come affermerà a più chiare lettere altrove e anche in poesia : “A noi ti vieta/ il vero appena è giunto,/ o caro immaginar;/[…] allo stupendo/ poter tuo primo ne sottraggon gli anni;/ e il conforto perì dei nostri affanni.”[2]). E anche qui, come spesso accade nel grande Filosofo/Poeta, ritornano i miti e i motivi fondamentali della sua speculazione e la disperata battaglia contro ciò che aggrava il desolato destino dell’umanità sulla terra. Ma il Discorso sui costumi andrebbe proposto nelle scuole o fatto conoscere più delle sue poesie più famose, perché è anche e soprattutto un approccio leopardiano per costruire una morale laica. Il Filosofo/Poeta tenta di mettere in piedi un’etica, fondata sull’onore, o meglio sullo «spirito di onore», anche se sa bene quanto sia fragile questo fondamento (e lo riconosce apertamente)[3].

Leopardi è ormai lontano dalla fede cristiana. E sente che «la morale […] è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora, né chi sa fino a quando, e non se ne vede il modo». Ma, secondo il Filosofo/Poeta, le cause del male e dell’immoralità starebbero nella disperazione che nasce dalla coscienza della vanità delle cose e dall’inutilità della vita. Certo anche nel Discorso ricorrono con frequenza i ben noti temi leopardiani (caduta delle illusioni, vanità del tutto, riso disperato…), ma il Filosofo/Poeta si cimenta in un tentativo disperato per ritrovare le basi di una convivenza possibile, pur nell’orizzonte desolato di un mondo privo di Dio e dei valori che a quella fede erano legati. E lo fa affrontando un impegnativo discorso politico sulla situazione italiana, sulla psicologia di un paese profondamente diviso, ma in cui tuttavia avverte dei «fratelli» («perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a miei fratelli?»). E non sarà un caso se il termine «fratelli» ricorre ben due volte nel Discorso.
Di discorsi «politici» Leopardi ne ha affrontati o avviati parecchi anche, come ho scritto in premessa, nel suo Zibaldone di pensieri. Ma quelle erano le pagine di un diario segreto, di un «giornale dell’anima» non destinato, almeno così com’era, alla pubblicazione. Mentre le idee che il Filosof/Poeta esprime nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani rivelano un impegno ben altrimenti costruttivo rispetto alle pagine satiriche della Batracomiomachia (dove Leopardi non salva nulla e nessuno) o a quelle stravolte dei Pensieri (dove la crudezza polemica non apre possibilità di dialogo, ma lo nega in partenza). Qui invece si respira già l’aria della Ginestra (1836), si avverte lo stesso spirito di fratellanza universale (quello che ci fa capire di quali aperture fosse capace Leopardi, senza i condizionamenti dovuti a un’infelice situazione storica e sociale).
Così, l’analisi leopardiana è spietatamente lucida. L’Italia è un paese dove non si conversa o si discute pacatamente, ma si schernisce l’interlocutore; un paese in cui non si gareggia per l’onore, e da uomini di onore, ma ci si combatte all’ultimo sangue. L’Italia è una terra dove non c’è convivenza civile, ma forzata; una società in cui ci si sbrana anziché collaborare al bene comune; un paese senza amor patrio, dove lo scherno dell’avversario prevale su tutto. L’autore vede ben al di là dei facili patriottismi e delle euforie risorgimentali, quando sente che nella penisola mancano quei legami che fanno di una collettività una «società stretta» e una «società buona», cioè un popolo di «fratelli», dove sarebbe possibile una morale universalmente valida, fondata non sulla legge (perché è una base poco solida la paura delle pene minacciate da un codice), ma sul senso dell’onore che indurrebbe a fare il bene per meritare il plauso e a fuggire il male per non incorrere nel disonore. Ecco, solo per queste crude e attualissime riflessioni ho prediletto questo libello, dirò di più, ma non credo sia importante in un convegno di studi su Leopardi, che non ho amato o se volete apprezzato il film di Mario Martone “ Il Giovane Favoloso”  che in qualche modo ha troppo attualizzato la figura del filosofo/poeta . Giovane ribelle che a ventiquattro anni  lascia finalmente il natio borgo selvaggio, va a Firenze ma non si adatta alle regole dell'alta società italiana che lo celebra e lo critica e infine lo emargina. E poi, insieme all'amico Ranieri con il quale sembra adombrarsi una passione nemmeno tanto segreta omosessuale l'arrivo a Napoli che è raccontata nel film come  un colpo al cuore e un colpo di fulmine.  Martone fa innamorare Leopardi di Napoli e ce lo descrive  innamorato  della gente dei quartieri popolari: degli scugnizzi, delle prostitute, delle taverne, dei bicchieri di vino e dei taralli. Finché scoppia il colera e l'amico Ranieri lo trascina a Torre Annunziata ai piedi del Vesuvio dove scrive La ginestra, la lunga poesia che racchiude il suo pensiero e con la quale si chiude il film. Una forzatura troppo forte per un filosofo/poeta che ha rincorso per la sua breve vita la convenienza della società, ovvero la bienséances e la politesse così lontane dalla società italiana allora come oggi.
                                                                                            Franco Cuomo




[1] Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Piano B Edizioni, Prato 2010, cit. pp. 29-30;. Sul concetto di bienséances Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2008, pp.46-67 e 261-270;
[2] Giacomo LleopardiAd Angelo Mai, v.100-105
[3] Giacomo Leopardi, Discorso…op. cit.

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