venerdì 17 aprile 2015

Si, ma come ha fatto?


 Quando certe mattine, soprattutto quelle di primavera, quando uscivi di casa e fuori c’era già la luce, l’idea di salire su quei vagoni  e di lasciare la costiera per Napoli, mi preparava ad una crisi di nervi che vibrava sempre nel mio corpo e poi finiva per non venire mai, influendo non poco sul mio umore e sulle mie relazioni col prossimo. Ogni stagione assumeva su quei vagoni sgangherati una sua particolare specificità, la primavera accentuava i lati nevrotici della mia personalità. Il corpo in primavera mi diventava più indolente, le mattine ventose finivano per farmi starnutire e lacrimare in continuazione, nel curvone grande, sia che ci fosse la tramontana, sia che ci fosse lo scirocco era tutto un turbinare di polveri di ogni genere, però io guardavo il mare e l’idea, di per sé già soffocante, di dover fare un’ora in circumvesuviana, mi restituiva tutto il mio totale rifiuto verso quella ferrovia. Si, certo, in quelle ore avrò divorato centinaia di libri, li leggevo poche pagine per volte, ma li leggevo e li finivo, perché, come vi ho già spesso detto, per il resto del viaggio mi addormentavo. Ma in quelle mattine di primavera avrei voluto sempre, con tutto me stesso, essere altrove o avere un’auto con l’autista che seguisse solo i miei desideri. Come avrei mai potuto formulare un nuovo patto con l’umanità che mi aspettava in quei vagoni? Quella umanità poi. E che patto avrei mai potuto stabilire?  Per anni ho pensato, ma solo nell’ultimo periodo ho realizzato che quegli uomini che pensavano di aver capito tutto, per i quali io non ero niente altro che un perdente radicale, avevano già compreso che la visione e la cecità sono strettamente legate l’una all’altra e dunque stavano più avanti della mia presunzione e dunque avevano realmente capito tutto. Devo confessare che in quelle mattine di primavera, quand
o nel mio paese la luce restituisce la gioia di vivere e il sole illumina la collina circostante che degrada pigra verso il mare, in me covava la rabbia profonda di non essere ricco o  benestante. L’unico pensiero che mi consolava era che, se riuscivo a conquistare un posto seduto fino a Napoli, avrei potuto amoreggiare con il libro di turno che avevo nel mio zainetto. I libri sono stati i miei veri amanti e nell’abbandonarmi ai loro amplessi ho compreso che l’intelligenza umana consiste nella capacità di rendere durevole la sua improbabile forma di vita mediante lo sviluppo di costruzioni supplementari. Così, con Ovidio o Montaigne, con Musil o Kafka, con Heidegger o Sloterdijk, con Camus o Mann nello zaino, attraversavo i tornelli, pronto alla mia lotta quotidiana, lasciandomi alle spalle, il mare, il sole e i mulinelli  pieni di polvere e di pollini. Quella mattina non trovai il posto seduto.
Appena le porte si aprirono, mi sentii contagiato e disfatto, contagiato dalla massa di gente pigiata una sull’altro e disfatto da quella esperienza che si ripeteva sempre uguale tutte le mattine, c’era gente in piedi già sulla piattaforma centrale del vagone. La mia era una desolata ipersensibilità nervosa che mi coglieva in quei momenti, dandomi spesso nausea o capogiri o extrasistoli che sembravano sfociare in crisi di panico che però non venivano mai. In quei momenti, all’inpiedi  tra la folla niente riusciva a catalizzare la mia attenzione, o un mio pensiero su qualcosa che potesse solo semplicemente essere per me una distrazione. Le stabili condizioni dello spirito, che dovrebbero essere garantite da un’umanità sensibile, in quella calca finivano per avere scarso valore  e vacillare, mentre ogni passione era annichilita in una grigia apatia. Qualche volta, solo il profumo che emanava da qualche corpo femminile riusciva a concentrare la mia attenzione: bisognava stare molto vicini e spesso non erano profumi quelli che riuscivo a captare. Quella mattina, credo a Torre del Greco, entrò una giovane donna, entrò è un eufemismo, perché la poverina fu violentemente spinta da tutti gli altri che volevano entrare, contro quel muro di corpi che già stava dentro. Era elegante e ben truccata, pensai a quanto tempo mettesse per truccarsi con quella cura, alle ore che sottraeva al suo sonno ogni mattina: fondo tinta ben steso, correttore nei punti giusti per togliere il lucido, rossetto pieno e voluminoso assolutamente perfetto su belle labbra piene.  Avvertivo la sua borsa sulla mia coscia e avevo quasi la faccia immersa nei suoi folti capelli neri. Era ben vestita e ben truccata e mi sembrava molto infastidita di trovarsi tra me, un uomo molto corpulento con una tuta e una vecchia maleodorante che sbraitava e imprecava ogni qual volta qualcuno la urtava, ovvero sempre. Nel momento in cui pensai di voler essere portato fuori da me stesso, in un’incredibile lontananza inaccessibile, furono forse semplicemente quei capelli neri che, prepotentemente con la loro sorda presenza, sfioraronono il mio viso e il mio naso sotto quell’inevitabile spinta. Se fosse successo con chiunque altro, avrei provato – come mi succedeva – fastidio e repulsione. Invece  in quel momento il mio cervello usci dall’apatia e considerai che il di fuori vuoto dell’attrazione, ovvero la mia indifferenza verso la giovane donna, si stava tramutando nel suo opposto. La mia era un’attrazione dissimulata, perché essa si poneva come pura presenza ravvicinata da una spinta opprimente dell’intero vagone. Un’attrazione ostinata, ridondante, superflua, un’attrazione respingente piuttosto che non attraente, un’attrazione non voluta ma che ti costringeva ad un rapporto molto simile ad un corpo a corpo. Era un sentirsi minacciati di essere assorbiti o compromessi da essa in una confusione smisurata. Fu in quell’attimo che un effluvio intenso, caldo, misterioso e infinitamente attraente, si sprigionò da quella folta capigliatura nera. Più l’avvertivo e più il mio viso si spingeva tra i capelli della giovane donna. Avvertivo un’opulenza orientale e ne riconoscevo le note. Ho sempre amato i profumi e a naso ne potrei distinguere moltissimi anche se col tempo sto perdendo questa qualità. Mi spinsi ancora più che potevo vicino alla donna. La donna reagì infastidita, ma, poverina, non poteva muoversi incastrata com’era tra il grassone e la vecchia imprecante. C’era sicuramente il gelsomino, e il mandarino, c’era pure l’opoponax, ma c’era anche del patchouly, del sandalo. Il treno tra scossoni e sobbalzi ci accostava e ci scostava. Ero piacevolmente frastornato e stordito e solo a quel punto mi accorsi di quanto vicini fossero i nostri corpi. Mi assalì un imbarazzo per me sconcertante, ma nonostante avvertissi tutto questo il mio pensiero elaborava velocemente tutta una serie di nomi: opium, oud royale, macassar, red door, coco, amarige. Poi, quasi come un flash, superai l’imbarazzo e sussurrai all’orecchio della donna ormai vicinissimo alla mia bocca un nome. Bisogna sempre parlare per difendersi, bisogna sempre dar voce e parole ai propri pensieri e darli nel modo più chiaro possibile se si vuole veramente percepire pienamente il mondo che ci sta intorno e bisogna farlo ininterrottamente e altrettanto definitamente. Difendersi dall’imbarazzo ma anche da quella improvvisa attrazione soprattutto se questa era dissimulata. Sussurrai un solo nome ponendo una domanda che pretendeva una risposta: Cinnabar ? La donna come in un sussulto sembrò rilassarsi, si distese, si tranquillizzò, si girò di scatto e sembrò finalmente rassicurata, anzi sembrò quasi volersi abbandonare alla mia vicinanza, mi sorrise e disse: “si, è Cinnabar, ma come ha fatto?


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