mercoledì 19 febbraio 2014

La recensione: ARREDO CASA E POI M’ IMPICCO di Massimiliano Virgilio, Rizzoli Editore, 2014; pp. 292 € 17,00.

<< Perché abbiamo trent’anni. E a trent’anni il tempo comincia a diventare un problema.>>
[…] << E’ che alla nostra età entri nell’ordine di idee di un tempo non infinito>> aggiunse.<<Per carità non sei a tre quarti e nemmeno a metà. Ma è come un’infiltrazione, di cui sei a conoscenza e che prima o poi sgorgherà in tutta la sua potenza. Hai come il presentimento di essere a buon punto, ma di non essere ancora diventata nulla. Per la prima volta ti dai uno sguardo alle spalle e ci resti male. Quel che è peggio e che ti senti senza ancoraggio. E il tempo per trovarlo sta per finire. Non credi che questo basti e avanzi per avere paura?>>

Ecco, dopo aver letto questo brano a pag.170, stavo per chiudere il libro e lasciarlo incompiuto. Ho pensato: “ Che palle ‘sti trentenni che si vivono già come  dei Matusalemme! 
Poi ho pensato che forse, liquidare un romanzo a metà, sarebbe stato ingiusto e dunque, sono andato avanti superando la iniziale ritrosia e insofferenza. Sto parlando dell’ultimo romanzo di Massimiliano Virgilio edito da Rizzoli.

Massimiliano Virgilio è uno scrittore napoletano, poco più che trentenne che ha già al suo attivo altri due romanzi, collabora con vari giornali ed è anche sceneggiatore. In effetti il romanzo narra di Michele, scrittore napoletano che sceglie di rimanere a Napoli, mentre la sua compagna Chiara e i suoi amici l'abbandonano per invivibilità culturale e sociale. Impegnato nella stesura di ciò che sogna essere il capolavoro letterario della sua vita e che, alla per lui, fatidica età di trent’ anni appunto, decide di comprare una casa con un mutuo e di arredarla e dei suoi incontri con i personaggi più importanti della sua formazione letteraria. Michele infatti, come suo nonno che invece diceva di incontrare il diavolo, incontra le figure letterarie che hanno segnato il suo sviluppo emotivo e culturale: dal Giovane Holden, a Ismaele di Moby Dick, a Arturo Bandini il litigioso emigrante di Fante, fino a Martin Eden di London . Tutti antieroi o eroi negativi ai quali l’esistenza urbana di Michele sembra ispirata. Così ho ripreso la lettura ma ho mantenuto tutte le mie riserve, trovando forse troppo comuni o scontati i riferimenti letterari scelti, e l’estetica complessiva di degrado urbano e di vite bohémien descritte con una lingua troppo simile ai ritmi di una sceneggiatura da fiction televisiva (limite, ma anche risorsa della scrittura di MassimilianoVirgilio): la figura di Miss Vrenzola per esempio e dell’amica, quella di Daniel J Russo pornografo, eroinomane, impotente. Insomma un’estetica troppo abusata dai trentenni con ambizioni letterarie cresciuti tra Bim Bum Bam e Il Mio amico Arnold, che bevono solo Negroni, che si fanno le canne, che sono democratici, ma anche aristocratici nello stesso tempo, che hanno la puzza sotto al naso, che sono elettivamente attratti dalla diversità ( neri, omosessuali, puttane moldave da emancipare) ma che poi coltivano in segreto  il culto dell’amore in coppia e dei buoni sentimenti anche se tra dubbi e spossatezze emotive. Diciamo che fino a pagina. 235 sono stato convinto di aver letto un “niente di che” arrancando tra citazioni spesso non richieste e ambientazioni di maniera con una Napoli in sottofondo tutto sommata già descritta da altri – me compreso – sempre uguale, sempre sciatta, sempre assolutamente insalvabile. Poi, improvvisamente, stamattina, in circumvesuviana (ho letto tutto il romanzo in treno, non in una volta) alla pagina 239 ho capito perché Massimiliano Virgilio è uno scrittore forte uno scrittore che è capace di smuovere emozioni e perché il suo romanzo si riscatta improvvisamente, con un brutale e secco schiaffo, ma anche con una ruvida carezza che ti graffia l’anima e ti scaraventa pienamente nella storia. La storia, mentre sembrava lasciare intuire altre soluzioni, improvvisamente vira bruscamente e in questa virata,  - che preferisco scopriate da soli per non togliere togliere il gusto della lettura a chi decidesse di leggerlo - , cambia radicalmente tutto il romanzo dall’inizio alla fine. Così, mentre continuavo a leggere è sparito tutto intorno a me: la calca, i rumori sferraglianti, il tempo stesso che si è come dilatato. Sono stato risucchiato dalla storia senza più avere il tempo di fare quello che avevo fatto nelle pagine precedenti ovvero distrarmi con le mie riflessioni su quella scrittura. E quella scrittura che mi era sembrata manierata fino a quel momento, è diventata letteratura alta,  ovvero: un’esperienza che ti lascia un segno profondo, che ti apre spiragli di valutazioni di senso, che ti commuove e ti agita. E Michele, a quel punto,  è diventato per me ciò che Ismaele, Arturo Bandini, Martin Eden, erano stati per lui: una presenza vera e non un’invenzione letteraria. Quando ho chiuso il libro perché l’ho finito quasi dimenticandomi che dovevo scendere, ho dovuto faticare non poco a uscire da quella storia e per tutta la mattinata ho ripensato alla conclusione racchiusa nel lucido fotogramma finale e magistralmente sintetizzato in 5 righi intensi, senza una sbavatura, senza un aggettivo di troppo, di quello che, alla fine, è stato un bellissimo romanzo.

Franco Cuomo








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