"Nel capitalismo può ravvisarsi
una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente alla
soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo
davano risposta le cosiddette religioni". Queste fulminanti parole di Walter
Benjamin – tratte da un frammento del 1921, pubblicato adesso nei suoi
Scritti politici, a cura di M. Palma e G. Pedullà per gli Editori
Internazionali Riuniti – esprimono la situazione spirituale del nostro tempo
meglio di interi trattati di macroeconomia. Il passaggio decisivo che esso
segna, rispetto alle note analisi di Weber sull'etica protestante e lo spirito
del capitalismo, è che questo non deriva semplicemente da una religione, ma è
esso stesso una forma di religione.
Con un solo colpo Benjamin sembra
lasciarsi alle spalle sia la classica tesi di Marx che l'economia è sempre
politica sia quella, negli stessi anni teorizzata da Carl Schmitt, che la
politica è la vera erede moderna della teologia. Del resto quel che chiamiamo
“credito” non viene dal latino “credo”? Il che spiega il doppio significato, di
“creditore” e “fedele”, del termine tedesco Gläubiger. E la “conversione” non
riguarda insieme l'ambito della fede e quello della moneta? Ma Benjamin non si
ferma qui. Il capitalismo non è una religione come le altre, nel senso che
risulta caratterizzato da tre tratti specifici: il primo è che non produce una
dogmatica, ma un culto; il secondo che tale culto è permanente, non prevede
giorni festivi; e il terzo che, lungi dal salvare o redimere, condanna coloro
che lo venerano a una colpa infinita. Se si tiene d'occhio il nesso semantico
tra colpa e debito, l'attualità delle parole di Benjamin appare addirittura
inquietante. Non soltanto il capitalismo è divenuto la nostra religione
secolare, ma, imponendoci il suo culto, ci destina ad un indebitamento senza
tregua che finisce per distruggere la nostra vita quotidiana.
Già Lacan
aveva identificato in questa potenza autodistruttiva la cifra peculiare del
discorso del Capitalista. Ma lo sguardo di Benjamin penetra talmente a fondo nel
nostro presente da suscitare una domanda cui la riflessione filosofica
contemporanea non può sottrarsi. Se il capitalismo è la religione del nostro
tempo, vuol dire che oltre di esso non è possibile sporgersi? Che qualsiasi
alternativa gli si possa contrapporre rientra inevitabilmente nei suoi confini –
al punto che il mondo stesso è “dentro il capitale”, come suona il titolo di un
libro di Peter Sloterdijk (Il mondo dentro il capitale, Meltemi 2006)?
Oppure, al di là di esso, si può pensare qualcosa di diverso – come si sforzano
di fare i numerosi teorici del postcapitalismo? Intorno a questo plesso di
questioni ruota un intrigante libro, originato da un dibattito tra filosofi
tedeschi, ora tradotto a cura di Stefano Franchini e Paolo Perticari, da
Mimesis, col titolo Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo,
arte e distruzione. Da un lato esso spinge l'analisi di Benjamin più
avanti, per esempio in merito all'inesorabilità del nuovo culto del brand. Tale
è la sua forza di attrazione che, anche se vi è scritto in caratteri cubitali
che il fumo fa morire, compriamo lo stesso il pacchetto di sigarette. Come in
ogni religione, la fede è più forte dell'evidenza. Dior, Prada o Lufthansa
garantiscono per noi più di ogni nostra valutazione. Le azioni cultuali sono
provvedimenti generatori di fiducia cui non è possibile sfuggire. Non a caso
anche i partiti politici dichiarano “Fiducia nella Germania” a prescindere, non
diversamente da come sul dollaro è scritto “In God we trust”.
Ma, allora,
se il destino non è, come credeva Napoleone, la politica, ma piuttosto
l'economia; se il capitale, come tutte le fedi, ha il suo luoghi di culto, i
suoi sacerdoti, la sua liturgia – oltre che i suoi eretici, apostati e martiri –
quale futuro ci attende? Su questo punto i filosofi cominciano a dividersi.
Secondo Sloterdijk, con l'ingresso in campo del modello orientale – nato a
Singapore e di lì dilagato in Cina e in India – si va rompendo la triade
occidentale di capitalismo, razionalismo e liberaldemocrazia in nome di un nuovo
capitalismo autoritario. In effetti oggi si assiste a un curioso scambio di
consegne tra Europa e Asia. Nel momento stesso in cui, a livello strutturale, la
tecnologia europea, e poi americana, trionfa su scala planetaria, su quello
culturale il buddismo e i diversi “tao” invadono l'Occidente. La tesi di Zizek è
che tra i due versanti si sia determinato un perfetto (e perverso) gioco delle
parti. In un saggio intitolato Guerre stellari III. Sull'etica taoista e lo
spirito del capitalismo virtuale (ora incluso nello stesso volume), egli
individua nel buddismo in salsa occidentale l'ideologia paradigmatica del tardo
capitalismo. Nulla più di esso corrisponde al carattere virtuale dei flussi
finanziari globali, privi di contatto con la realtà oggettiva, eppure capaci di
influenzarla pesantemente. Da questo parallelismo si può trarre una conseguenza
apologetica o anche una più critica, se riusciamo a non identificarci
interiormente col giuoco di specchi, o di ombre cinesi, in cui pure ci muoviamo.
Ma in ciascuno dei casi restiamo prigionieri di esso.
È questa l'ultima
parola della filosofia? Diverremo tutti, prima o poi, officianti devoti del
culto capitalistico, in qualsiasi versione, liberale o autoritaria, esso si
presenti? Personalmente non tirerei questa desolata conclusione. Senza
necessariamente accedere all'utopia avveniristica del Movimento Zeitgeist o del
Venus Project – entrambi orientati a sostituire l'attuale economia finanziaria
con un'organizzazione sociale basata sulle risorse naturali –, credo che l'unico
grimaldello capace di forzare la nuova religione del capitale finanziario sia
costituito dalla politica. A patto che anch'essa si liberi della sua, mai del
tutto dismessa, maschera teologica. Prima ancora che sul terreno pratico, la
battaglia si gioca sul piano della comprensione della realtà. Nel suo ultimo
libro, Alla mia sinistra (Mondadori, 2011), Federico Rampini percorre
lo stesso itinerario – da Occidente a Oriente e ritorno – ma traendone una
diversa lezione. All'idea di “mondo dentro il capitale” di Sloterdijk è
possibile opporre una prospettiva rovesciata, che situi il capitale dentro il
mondo, vale a dire che lo cali dentro le differenze della storia e della
politica. Solo quest'ultima può sottrarre l'economia alla deriva autodissolutiva
cui appare avviata, governandone i processi ed invertendone la
direzione.
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