Benjamin è
scrittore asistematico, privilegia la forma del saggio e dell'aforisma, e
concepisce come compito specifico del critico il prendere posizione e la
negazione dell'ordine esistente. Nei suoi lavori di critica letteraria riprende
la pratica del commentario ebraico, diretta a restituire all'originale la forza
distruttiva di cui neppure l'autore di esso era stato cosciente. Il linguaggio,
infatti, ha funzione espressiva, non strumentale: attraverso di esso, l'uomo
deve dare voce alle cose mute. Dunque, teoria critico-materialistica e pensiero
utopico-messianico si congiungono in modo originale nell'opera di Benjamin.
Nella genesi del suo pensiero sono presenti motivi della filosofia romantica
(alla quale è dedicata la sua tesi di laurea sul Concetto di critica d'arte
nel romanticismo tedesco , del 1918), il pensiero nietzscheano (per le
critiche alle pretese sistematico-totalizzanti della ragione, l'atteggiamento
ermeneutico critico nei confronti della tradizione culturale e della realtà
sociale, l'attenzione per il rapporto tra i contenuti del pensare e i suoi modi
espressivi), l'esperienza delle avanguardie artistico-letterarie (per tutto ciò
che di che di rivoluzionario e di dirompente hanno avuto nei confronti di una
concezione ottimistica-retorica dell'uomo). Una componente essenziale della
formazione e del pensiero di Benjamin è poi il suo ebraismo, rivissuto in molti
suoi aspetti (a cominciare dalla lacerante tensione tra attesa messianica e
valorizzazione della memoria storica) attraverso il rapporto con Gershom Sholem,
un grande studioso della mistica ebraica. E' al tema di una lingua pura,
immediatamente simbolica (cui si oppone la violenza operata dall'astrazione e
dal giudizio concettuale proprio delle moderne concezioni del pensiero e del
linguaggio) che sono dedicati i primi saggi di Benjamin: Sulla lingua in
generale e su quella degli uomini ( 1916 ); Per la critica alla
violenza ( 1921 ); Il compito del traduttore ( 1923 ).
Sull'interpretazione dell'opera d'arte è incentrato invece il Saggio sulle
affinità selettive di Goethe ( 1924-1925 ). In esso s'annuncia un motivo
decisivo della riflessione estetica di Benjamin: la conciliazione proposta o
suggerita dall'opera d'arte è solo un'apparenza mistificante; quanto alla
pretesa totalità essa è falsa e smentita dall'intima (benché talora non
evidente) frammentarietà del prodotto artistico. Nell'opera d'arte non è
immediatamente visibile una dimensione utopico-positiva. Questa semmai è
presente nella forma dell'inespresso, "del non detto" dell'arte - ovvero in una
speranza che peraltro possono solo cogliere solo coloro che ne sono radicalmente
privi. L'opera più compiuta di Benjamin - la sola ch'egli potè portare a termine
- è L'origine del dramma barocco tedesco ( 1928 ). Attraverso una ricca
analisi delle forme e figure del dramma barocco (Trauerspiel) come impossibile
tentativo di ripetere storicamente la tragedia greca, questo celebre saggio
svolge un acuto e suggestivo discorso sui concetti di simbolo e allegoria - e
più in generale sull'essere e sul conoscere umano. Benjamin presenta infatti
l'allegoria barocca come critica dell'aspirazione classicista a riunificare la
scissione originaria prodottasi nell'uomo ed espressa sia nella simbologia
tecnologica (il creatore e la creatura, la caduta e la redenzione…), sia in
alcune coppie antinomiche della tradizione occidentale (il finito e l'infinito,
il sensibile e il sovrasensibile…). Sotto un diverso profilo, l'opera
benjaminiana fornisce una chiave preziosa per interpretare anche alcune
fondamentali aporie dell'arte (e della coscienza) moderna: Benjamin fa infatti
vedere come la tensione a raggiungere nell'esperienza artistica il "simbolo" (e
quindi l'unificazione effettiva di cosa, linguaggio e significato) esploda
continuamente in "allegoria", ovvero in una dialettica eccentrica (priva di
centro) tra quanto è figurato nell'espressione, le intenzioni soggettive che lo
hanno prodotto e i suoi autonomi significati. Per questo scacco del simbolico la
malinconia diviene, nell'indagine di Benjamin, il
sentimento fondamentale del soggetto moderno. A un altro livello, ciò che il
trionfo dell'allegoria rivela è un'insanabile lacerazione, una sempre più
radicale perdita di senso, un decadimento dell'umano e della storia. A partire
dagli anni '30 Benjamin si avvicinò in qualche misura alla "Scuola di
Francoforte": pur senza mai entrare a far parte organica del gruppo, egli
collaborò con la "Rivista per la ricerca sociale" ed ebbe un'intensa, seppur
travagliata, amicizia con Adorno. Le molteplici differenze tra i due pensatori
non debbono far dimenticare (come talora è accaduto) certe loro innegabili
prossimità di interessi e anche, entro certi precisi limiti, di convinzioni
teoriche. Sia Adorno sia Benjamin respingono il privilegiamento dell'esistente,
la ubriV della ragione positivistica, la barbarie
dell'organizzazione capitalistica e della società. Entrambi (ma soprattutto
Benjamin) rifiutano un'interpretazione e una pratica della riflessione come
ricerca del sistema, del fondamento assoluto. La filosofia, secondo loro, deve
soprattutto mettere in luce le contraddizioni celate sotto le ingannevoli
apparenze della realtà e, insieme, il bisogno di felicità e di emancipazione
insito nel mondo umano. Tale bisogno si esprime (spesso in modo cifrato) nelle
situazioni, nei testi, negli eventi più disparati. Per questo, entrambi i
pensatori fanno filosofia interrogando le testimonianze o i segni più eterogenei
e talvolta sconcertanti. Sotto tale profilo, il più caratteristico e suggestivo
saggio di Benjamin è l'incompiuta opera su Parigi come " capitale del XIX
secolo ", nella quale il pensatore ha cercato di afferrare il senso di
un'intera epoca storica giustapponendo l'analisi della poesia di Baudelaire e
quella dell'assetto urbanistico parigino, l'interpretazione di nuove figure
psico-antropologiche (il "flaneur", il "dandy", la prostituta) e l'esame dei
nuovi caratteri della produzione e della circolazione della merce. Molta
attenzione egli dedica soprattutto alla figura di Baudelaire, di cui fu anche
traduttore: in particolare, distingue il concetto di "esperienza" dal concetto
di "esperienza vissuta"; la seconda permette di rielaborare razionalmente,
attraverso la riflessione, gli "choc" della vita, così da impedirne la
penetrazione nel profondo e da difenderne la coscienza dal loro assalto. La
semplice "esperienza" è invece quella subita direttamente dallo choc, senza
mediazione: è quest'ultimo il caso di Baudelaire, che nella vita cittadina
subisce incessantemente l'esperienza degli choc prodotti dagli urti della folla,
dalle luci, dalle novità dei prodotti e delle situazioni e insomma
dall'esistenza stessa di una metropoli moderna. La folla sarebbe perciò la "
figura segreta " (il suggello e insieme la potenza nascosta) della sua
poesia: pur non essendo mai compiutamente rappresentata, tuttavia la folla è una
presenza ossessiva nell'opera di Baudelaire e non va ricercata tanto nei temi e
nei contenuti, quanto nella forma poetica, nel ritmo nervoso, ora ondulato, ora
franto, del verso baudelairiano ( " questa folla, di cui Baudelaire non
dimentica mai l'esistenza, non funse da modello a nessuna delle sue opere. Ma
essa è iscritta nella sua creazione come figura segreta "). Nella propria
anatomia della modernità, Benjamin si è spesso rivelato più aperto e
spregiudicato di Adorno: ora interrogandosi sul fenomeno della droga, ora
analizzando con simpatia produzioni socio-culturali in apparenza 'minori', come
la letteratura per l'infanzia e il "feuilleton", la fotografia e i giocattoli.
Un'altra e più sostanziale diversità fra i due filosofi è l'atteggiamento nei
confronti dell'arte: convinto come Adorno che il fenomeno artistico sia
un'esperienza particolarmente eloquente del disagio della civiltà, Benjamin ne
ha una visione meno aristocratico-elitaria rispetto a quella dell'amico. Una
significativa testimonianza di ciò è offerta dal saggio L'opera d'arte
nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37). In esso, Benjamin
contrappone ad ogni interpretazione mistico-esoterica del fenomeno artistico una
concezione in qualche modo secolarizzata di esso. Prodotto di uomini per altri
uomini, l'arte va studiata " materialisticamente " sia nei suoi modi di
elaborazione e di rappresentazione anche tecnica (non esclusi quelli fotografici
e cinematografici) sai nelle particolari modalità percettive del suo fruitore.
Lo sviluppo delle forze produttive, rendendo tecnicamente possibile la riproducibilità delle opere d'arte (pensiamo alla televisione,
ai cd, alla radio, al computer, ecc), ha messo fine all'alone di unicità,
originalità e irripetibilità dell'opera d'arte, ossia all' " aura " che
la circonda di sacralità agli occhi della borghesia, la quale proietta in essa i
suoi sogni e ideali aristocratici: l'aura è quindi l'alone ideale che rende
sensibile al fruitore l'unicità irripetibile dell'atto creativo. Nella società
di massa, in cui regna la riproducibilità dell'opera d'arte, l'opera d'arte "
può introdurre la riproduzione dell'originale in situazioni che all'originale
stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al
fruitore, nella forma della fotografia o del disco. La cattedrale abbandona la
sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d'arte; il coro che
è stato eseguito in un auditorio oppure all'aria aperta può venir ascoltato in
una camera. Ciò che vien meno è quanto può essere riassunto con la nozione di
'aura' e si può dire: ciò che vien meno nell'epoca della riproducibilità tecnica
è l'aura dell'opera d'arte ". La riproducibilità tecnica segna il trionfo
della copia e del " sempre uguale ", per uomini rimasti privi di
saggezza; ma in ciò, secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario,
perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia,
l'accesso all'arte e alle sue capacità di contestazione dell'ordine esistente.
Solo attraverso la distruzione violenta di quest'ordine, ormai diventato
inumano, si può aprire lo spazio per la redenzione e la felicità. Benjamin
contesta le concezioni ottimistiche del progresso, condivise anche dal marxismo
dei socialdemocratici tedeschi, secondo cui la storia è un cammino lineare di
sviluppo crescente. Esse, infatti, si pongono dal punto di vista dei vincitori
nella storia, anziché rimettere in questione le vittorie di volta in volta
toccate alle classi dominanti. Si tratta, invece, di " spazzolare la storia
contropelo ", strappandola al conformismo delle classi dominanti, ovvero
accostandosi al passato come profezia di un futuro e arrestando la continuità
storica con un salto e una rottura. Nella storia, infatti, non c'è un teloV , un "fine" garantito: e infatti anche sugli sviluppi
della società sovietica Benjamin è pessimista. Solo recuperando e prendendo al
proprio servizio la teologia e il messianesimo sarà possibile liberarsi dalla
fede cieca in un progresso meccanico. La differenza più sostanziale tra Benjamin
e Adorno è l'atteggiamento nei confronti del pensiero
dialettico : profondo conoscitore ed estimatore della cultura tedesca,
Benjamin 'ignora' Hegel. Il suo silenzio esprime un rifiuto che, lungi dal
condannare i soli aspetti conciliativi/totalizzanti dell'hegelismo criticati
anche da Adorno, investe la stessa concezione hegeliana dell'immanenza della
ragione nel reale e, soprattutto, della storicità dialettico-progressiva di
quest'ultimo. La critica benjaminiana dello storicismo (e, più in generale,
della concezione moderna della temporalità e del suo senso) è radicale: la sua
condanna Benjamin la esprime in "Tesi di filosofia della storia" (1940). Per
Benjamin ogni rappresentazione del tempo/storia secondo moduli fisico/lineari è
fuorviante: è falso, inoltre, che la storia sia un processo continuo e uniforme
nel tempo; che tale processo sia accrescitivo e progressivo; che, quindi, i
traguardi e le aspirazioni degli uomini si debbano necessariamente ed
esclusivamente collocare 'davanti'. Alla redenzione umano/sociale si deve essere
spinti, invece, dalla visione del passato, fatto di " rovine su rovine "
e così orrendo da esercitare in chi (come l' Angelus Novus raffigurato in
un acquerello di Paul Klee molto amato da Benjamin) sa voltarsi a guardarlo una
spinta irresistibile verso un futuro diverso. Se il rifiuto di un tempo/storia
monodimensionale e spaziale fa pensare a certe analoghe posizioni assunte da
Bergson o da Dilthey, occorre subito aggiungere che Benjamin polemizza
aspramente con tutti e due i filosofi. A suo avviso, la storia, ben lungi
dall'essere riconducibile ad un' "Erlebnis" soggettiva, è qualcosa di
estremamente oggettivo e corposo. Così oggettivo e corposo da costituire una
realtà in larga misura estranea, o almeno 'altra' rispetto al soggetto. Sotto un
certo aspetto, essa appare, come dicevamo, un " cumulo di macerie " , o
anche un gioco di forze terribili, tanto più terribili in quanto sanno spesso
mascherarsi sotto le forme di miti seducenti. Sotto un altro aspetto, essa
contiene però princìpi e valori non solo preziosi, ma imprescindibili e
insostituibili. Purtroppo, non sempre il presente vuole e sa interrogare il
tempo che è stato: soltanto certe epoche riescono ad inoltrarsi per tale
itinerario interrogativo; e solo in certi casi si riesce ad entrare in rapporto
con ciò cui, più o meno consapevolmente, si tende. Ma la ricerca di questo
rapporto è un compito al quale non ci si può e non ci si deve sottrarre: la
decifrazione del passato consente infatti di cogliere e di rivitalizzare idee e
"unità di senso" che erano rimaste come se sepolte e bloccate nei loro possibili
sviluppi. Inoltre, le domande che rivolgiamo al passato sono in realtà le nostre
domande: solo comprendendo il passato comprendiamo noi stessi. Solo liberandone
le virtù nascoste liberiamo noi stessi. Il Novecento appare a Benjamin abitata
da grandi potenzialità sia positive (le possenti spinte auto-emancipatorie degli
oppressi) sia negative (i totalitarismi, il potere tecnologico non adeguatamente
controllato). In veste di marxista sui generis , Benjamin sostiene la
necessità che le classi rivoluzionarie sappiano svolgere approssimativamente il
loro compito teorico e pratico: senza cullarsi nell'illusione di riforme
graduali e indolori, senza sottomettersi ai miti del progresso e della tecnica,
ma assumendo invece una responsabilità 'epocale': quella di capire e di far
capire che viviamo in uno " stato di emergenza ". Nelle Tesi di
filosofia della storia , composte negli ultimi mesi della sua vita in
Francia, Benjamin si richiama (a partire dal titolo) alle 11 Tesi su
Feuerbach di Marx: in esse, Benjamin conduce una dura critica nei confronti
dello storicismo, che giustifica gli eventi storici e assume quindi il punto di
vista di coloro che hanno vinto nella storia. Egli indica, invece, una
possibilità di vittoria per il materialismo storico, se questo " prende al
suo servizio la teologia ", che oggi " è piccola e brutta ". Il
recupero della tradizione messianica consente infatti di concepire il tempo come
un processo non lineare, bensì solcato da improvvisi istanti rivoluzionari che
frantumano la continuità storica: " la coscienza di far saltare il
'continuum' della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della
loro azione. […] Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico
nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare. Poiché questo
concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive la
storia. Lo storicismo postula un'immagine eterna del passato, il materialista
storico un'esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie
energie con la meretrice 'C'era una volta' nel bordello dello storicismo. Egli
rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il 'continuum'
della storia ".