mercoledì 4 maggio 2016

Banalità del presente e crisi della democrazia

Mario Monti

Per definire il senso di rassegnata impotenza che attanaglia oggi quei cittadini della mia generazione che un tempo si occupavano di politica o la facevano attivamente in partiti operai, bisogna partire credo, da ciò che si definisce globalizzazione. Nel 2002 scrissi un libro per Franco Di Mauro Editore, con una prefazione di Aldo Masullo, che si chiamava Etica e Globalizzazione, in quel libro si parlava di crisi dell’etica e della comparsa di morali separate, morali diremmo oggi deontologiche. A distanza di quattordici anni, non avrei mai pensato che, quel termine che allora cominciava a fare la sua timida apparizione, travalicasse  i confini dell’economico – dove era nato ( globalizzazione dei mercati) – e estendendosi pienamente al politico mettesse in crisi l’idea stessa di democrazia parlamentare e l’autorità degli Stati Nazione. La globalizzazione sembra ormai essere diventato un processo integrale irreversibile. Integrale nel senso che è diventata la forma – non soltanto economica o tecnologica , ma anche logica e ontologica del mondo: quello che sta avvenendo in Italia, sta avvenendo anche in altre nazioni europee e la percezione di questa mutazione da noi si è cominciata ad avvertire col primo governo Monti, fino a arrivare a quello attuale di Renzi, governi che sono entrati in carica senza che i cittadini fossero chiamati a esprimere il voto sugli stessi e che stanno tentando di trasformare in senso autoritario e dirigistico la democrazia rappresentativa, ovvero: stanno trasferendo i destini dello Stato Nazione nell’egida di ciò che Toni Negri – non senza molte ragioni- definisce l’Impero: “L'Impero emerge al crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell'imperialismo, l'impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l'intero spazio mondiale all'interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L'Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale[1]. Questo nuovo assetto disegna una nuova geografia del potere: dal sistema di produzione fordista, meccanico e serializzato, siamo passati a un’economia biopolitica, che lavora e manipola la vita sociale nei suoi meccanismi d’interazione, comunicazione e affettività; dalla centralità degli stati- nazione a una forma di sovranità globale, senza centro né confini, che giustifica ogni suo intervento consacrandolo in nome di una pace perpetua e universale che però è concepita e imposta sempre e solo dai dominatori. Allora, la crisi di cui parlavo all’inizio, la crisi di tutti quei cittadini della mia generazione che un tempo si occupavano di politica e in qualche modo tentavano di governare anche opponendosi i processi socio economici, fa i conti con questo nuovo tipo di dominio e contro questa forma di dominio sempre più assoluta si dovrebbe tentare di costituire o organizzare poteri alternativi, forze di resistenza. Il compito è arduo se non impossibile: troppe forze sono in gioco e ciò che all’inizio ho chiamato “ forma logica e ontologica del mondo”, si connota essere come la forma stessa del linguaggio e del pensiero. Intanto, chi oggi crede di far politica si muove all’interno di questo universo con modalità espressive che sono identiche o variano di pochissimo sia che si tratti di  conservatrici sia se si tratta di progressiste, l’utilizzo di programmi omologati agli interessi dell’unico sistema possibile di dominio fa si che l’agone politico diventi solo un paravento che serve a mascherare l’avvenuto insediamento di un controllo sovranazionale. Tutti quelli che non si conformano a questa ontologia sono ritenuti pericolosi, sovversivi, criminali o pazzi che attentano alla “democrazia paravento” la cui unica finalità è quella di controllo sociale, se non apertamente di dominio.  Non vorrei essere pedante, ma che questo sia un processo integrale e irreversibile è provato dal fatto che anche quelle che potrebbero sembrare le forme di resistenza più virulenta ad esso, si muovono all’interno delle sue stesse coordinate adoperando il suo stesso linguaggio e fanno uso delle stesse armi ideologiche e reali che pure contestano. La circostanza che formazioni come l’ISIS, il califfato di   al-Baghdadi, non solo traggano le proprie risorse da giri finanziari interni all’Occidente, ma siano stati finanziati ed armati dagli stessi americani  indica che bisogna guardare allo scontro in atto non come un conflitto tra sistema e anti sistema, ma come un conflitto tutto interno al/e prodotto dall’unico sistema- mondo e questo vale soprattutto sul piano dell’immagine. Non esistono due rappresentazioni diverse e alternative, ma una lotta per l’egemonia nell’unico orizzonte rappresentativo possibile: quello mediatico. Ora, se tutto ciò è vero, vuol dire che è insensato delineare scenari politici, economici, antropologici alternativi a questa forma globale che ha assunto il mondo. Questo non soltanto per il loro carattere in effettuale, utopico e residuale, ma anche perché le forme di neolocalismo identitario sono esse stesse il risultato speculare della medesima globalizzazione che vorrebbero contrastare. Rispetto a questo universo chiuso, la democrazia rappresentativa diventa solo una formuletta per garantire lo status quo al dominio sovranazionale mondiale: saltano le rappresentazioni mitopoietica della democrazia antica, quella greca per intenderci, ma saltano anche quelle della democrazia moderna e le sue degenerazioni, quali oligarchia e tirannide. La morale della favola è chiara: avere a lungo rifiutato di governare i processi economici (in omaggio all’ideologia della sua naturale autonomia, ovvero della “naturalità” del mercato), avere lasciato briglie sciolte agli «spiriti animali» del capitalismo, distruttori della coesione sociale, costringe alla fine ad approdare all’estremo opposto: non soltanto al governo sociale-politico dell’economia, ma all’adozione di politiche totalitarie, liberticide e criminali.  La cosa più grave, è che questa aberrazione concettuale ha contagiato anche quelle forze che fino agli anni ’70 avevano garantito una resistenza a questo sistema unico che cresceva e spazzava via  la solidarietà sociale. Se ascolto un giovane - e per me la categoria va dai 15 ai 40 anni-  non posso non constatare che essi diano per naturale l’ordine di cose esistente. Grosse responsabilità sono da attribuirsi alle classi dirigenti che governavano quelle forze, penso alla classe dirigente post –Berlingueriana nel PCI, ma anche a quelle laburiste inglesi  e alle politiche di Blair. È stato scritto di recente a questo riguardo che in tutta Europa la maggior parte delle sinistre ha rassegnato le «dimissioni dalla propria funzione critica»[2] e che «gli avvocati» che rappresentavano la parte più vulnerabile e meno protetta della società non solo «si sono mostrati incapaci di giocare d’anticipo» rispetto all’offensiva neoliberista, ma hanno altresì deciso di smantellare gli «impegnativi apparati di mobilitazione» (i grandi partiti socialisti e comunisti) al fine di rafforzare «la divisione del lavoro tra rappresentanti e rappresentati» e di riservare a sé (gli addetti ai lavori della mediazione tra interessi) «il monopolio della politica» (lasciando al popolo «la cura degli affari e dei piaceri privati» Ad ogni modo, vero o falso che sia questo severo resoconto, sta di fatto che oggi in Italia ci ritroviamo in un frangente della vita del paese non soltanto avvilente ma anche assai rischioso. Dinanzi a chi non opti per il diniego della realtà (come sembra fare talvolta un ceto politico ossessionato dagli imperativi dell’autoconservazione e forse anche per questo intenzionato a varare ambiziose riforme costituzionali, la cui portata urterebbe con una fragile legittimazione) si stende uno scenario allarmante, l’immagine di un paese allo sbando, che sa di non potersi fermare ma ignora la direzione da intraprendere. In termini di classe, il discorso pubblico è tuttora – ovviamente – monopolizzato dalle forze dominanti, nonostante i disastri provocati dal liberismo. E indiscutibilmente pesano, in questo scenario, anche le gravi responsabilità dei media che pressoché unanimemente rappresentano la crisi della democrazia sotto un’angolatura che ne impedisce qualsiasi lettura critica. Naturalmente è vero che i processi di mutamento storico-concettuali non sono mai lineari, ma forse mai come oggi si richiede uno sforzo preminentemente  filosofico improntato ad una radicalità estrema che ridicolizzi e polverizzi i linguaggi mediocri e asfittici che parlano e praticano i politici contemporanei.





[1] Toni Negri, Impero.Il nuovo ordine della globalizzazione, BUR, 2002
[2] Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, cit., p. 57. 

Nessun commento:

Posta un commento