A
Barra ci siamo fermati. Un odore acre ti brucia le narici, qualcuno dice: “è
ferodo”, ovvero esalazioni di gas da materiale d’attrito usato per i freni dei
treni. Le porte sono chiuse, i finestrini bloccati a feritoie di venti
centimetri. Si aspetta non si sa cosa. La gente ammassata rumoreggia, c’è chi
impreca e bestemmia. La puzza aumenta, qualcuno si sente male. Le porte sono
sempre chiuse. Rimango seduto a occhi chiusi , controllo il respiro e il
battito, si sente una voce strozzata, in lontananza che urla: “il treno si sta
incendiando!”. E’ il panico! Finalmente le porte si aprono, la gente si
scaraventa fuori sulle banchine di cemento, non c’è ombra del personale
viaggiante, non c’è neanche ombra fuori. Ci sono 36 gradi e il sole picchia
rovente. Ci potrà mai essere una svolta per tutto questo? E chi la potrà mai
fare? Siamo in troppi, e il genericismo delle nostre conoscenze è tale che ci
siamo ridotti agli stessi livelli semantici delle plebi medioevali: impotenti e
travolti dal degrado. Eravamo tutti su quella banchina assolata e rovente
abbandonati a un destino di fallimento tecnico ed organizzativo, ma avevamo
tutti i nostri smartphone connessi e tutti nello stesso momento con le dita
anchilosate inviavamo sms o postavamo notizie sui social. Il corso del mondo
avrebbe bisogno di correzioni in profondità, ma da dove potrebbero prendere
avvio? Da quale umanità? Non certo da quella che avevo intorno a me. Dove si
sarebbe mai potuto manifestare, nel modo più urgente possibile ciò che salva?
E’ in questi momenti, quando l’indifferenza incontra la molteplicità dei
significati delle vite di ognuno che ogni differenza tra movimento vero e
movimento falso sembra sparire. Ti porti sotto l’unica pensilina, ma il caldo e
soffocante, mentre il terzo vagone di un treno ormai vuoto brucia aumentando la
sensazione di aria arroventata. Noi pratichiamo sport di massa ma non abbiamo
idea di un qualche movimento che potrebbe aiutare il mondo in quanto tale. Su
quella banchina a Barra siamo tutti atleti estremi – lo sono consapevolmente o
inconsapevolmente – tutti i viaggiatori della Circumvesuviana. Siamo atleti
estremi, ma tra di noi non c’è più nessun rivoluzionario che abbia una qualche
fede! Nessuno che organizza più nessuno, monadi isolate ognuna chiusa nella sua
bolla di comunicazione virtuale e magari il tuo vicino sta morendo e tu non te
ne accorgi nemmeno, al massimo, lo fotografi e lo posti. Mi porto lo zainetto ai piedi e il saggio su
Heidegger sulla testa per proteggermi dal sole, il saggio mi conforta, averlo
in mano mi da una speranza ma è anche una disillusione. Offro dell’acqua dalla
mia bottiglina a una signora molto anziana visibilmente affaticata. Trascorrono
due ore, nelle quali viene dato un solo annuncio per il prossimo treno per
Sorrento. Siamo tutti lì come inebetiti. La lista delle disillusioni è così
lunga eppure stiamo sbagliando. Stiamo sbagliando se crediamo di poter
soddisfare la nostra vita in questo modo. Potremmo andare benissimo tutti a
puttane e il risultato non cambierebbe. Non serve guardare a ciò che accade e
indignarsi. Non basta più, perché anche nella più pura sincerità, questa
indignazione ci lascerà comunque in balia della nostra esistenza,
insignificante per chi detiene il controllo del mondo, per questi siamo come le
plebi medioevali. Niente più indignazione allora, la mia sensibilità si
indurisce ogni giorno sempre di più. Ma non basta, non serve addestrare la
sensibilità, perché il mondo accade con questi fatti e ti colpisce. Il treno va
in fiamme nell’indifferenza nostra e di quelli che quel treno dovrebbero farlo
muovere. A nessuno importa sapere il perché o il per come, la causa prima e non
parlo di quella Aristotelica. Così arriverà l’abitudine a prenderci in giro,
facendoci credere di indignarci ancora: tutti lì ad indignarci, tutti lì, senza
alcun potere, tutti lì con i nostri smartphone. Poi, una volta arrivato un
altro treno,arriverà l’orgoglio, la volontà di farci credere di essere
soddisfatti della nostra vita e di quello che questa ti offre e che in fondo
visto che viviamo nel napoletano, poteva andar peggio. Ma non è mai così e
siamo solo una massa in balia dell’indifferenza diffusa. La disillusione
sembrerebbe essere l’unico modo per limitare i danni, il filtro per questa
nicotina, questo catrame che colpisce la nostra mente, e che uccide ogni
sensibilità. Allora possiamo solo incassare, fino a quando la disillusione ci
prenderà per mano e ci porterà in un limbo, in quell’interruzione temporale che
potrebbe aiutarci e riempirci ancora di
finte certezze. La disillusione come una droga. E allora? Qual’è il vero
movimento verso una possibile salvezza? Ce ne sarà mai una? Come si può
giustificare la mia idea di pretendere un sovvertimento quando poi siamo tutti
lì ad aspettare un altro treno, sotto il sole cocente di una brutta stazione di
Barra, dopo aver patito le pene dell’inferno senza protestare o senza sfasciare
tutto quello che c’è lì intorno per dare sfogo per lo meno alla rabbia? Forse
sarebbe tempo di mettere a riposo questi singolari fatali e ripercorrere da solo
i sentieri interrotti dall’ essere. Capire finalmente che nell’ora del
crepuscolo di ogni speranza si manifesta nel modo più urgente la secca realtà:
che tutto ciò che alla fine ha la pretesa di trarre in salvo è portatore di
altri pericoli e dovremmo essere cauti verso ogni espertocrazia del salvare o
del salvifico. Nel frattempo arriva un altro treno (dopo due ore) e tutti,
come una mandria di buoi impazziti spingendo e sgomitando ci ammassiamo per
poter avere l’illusione di fare un viaggio comodamente seduti. Chiedo alla
vecchia signora sulla ottantina:” cosa fa, non sale?” e lei, tranquilla,
“aspetto quello dopo…non c’è la potrei fare a reggere tutto questo, ho bisogno
di andare verso una stella, soltanto questo”, poi mi sorride, socchiude gli
occhi e mi dice: “grazie per l’acqua”.
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