Sono le 23 e 10, sono al buio in una camera di ospedale accanto al letto di mia madre. Una rettoragia a 88 anni è una cosa seria. Lei si è appena addormentata piena di aghi e tubicini. Io sono lei, lei è me. Non ho mai percepito mia madre diversamente. Da quando ero estremamente piccolo, ancora oggi il mio corpo è un'estensione del suo. Così oggi, mentre quasi collassava i medici la pungevano da più parti per trovare altre vene per altri buchi e lei che chiamava :" Franco, Franco! Mi fanno male" e io impotente le tenevo una mano e dicevo continuamente " Mamma, mamma, ti voglio bene " e piangevo per il suo dolore fisico che avvertivo come fosse il mio. Qualcuno si è meravigliato di questa forma di amore: ho risposto semplicemente :" è mia madre". Meravigliarsi di una gratitudine protratta nel tempo è una ben strana povertà in un tempo fatto di badanti, case di riposo, ospizi. La gente si meraviglia che un figlio possa amare la propria madre. Ora riposa. Nel buio controllo il suo respiro , ogni minimo movimento . Cerco di entrare nel suo sonno, le accarezzo delicatamente la testa. Stava così bene qualche giorno fa, almeno così sembrava. Poi è accaduto tutto troppo in fretta. Nel silenzio la osservo. Ho paura di addormentarmi. Ritorno alle sue filastrocche, ai suoi raccontini ai suoi ricordi al suo dare del lei con gentilezza a infermieri maleducati e a medici scostanti, ma anche a sfuriate e mandate a fare in c ... ai medesimi infermieri maleducati e agli stessi medici scostanti. Io sono mia madre, lei è me. L'accarezzo furtivamente per non svegliarla e veglio sul suo sonno e sulla sua fragilità . Una notte in ospedale non passa mai : un fruscio, un lamento, un lampo accecante di luce improvviso . Mamma si gira , mi chiama, la rassicuro sprofonda di nuovo nel sonno. È l' una meno un quarto.
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