Thomas Mann |
Ho
recentemente avuto modo di rileggere un libriccino di Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico. E’ un saggio
del 1918, scritto perciò in uno dei periodi di crisi più acuta del Novecento.
In esso lo scrittore tedesco rivendica la libertà interiore da ogni faticoso
impegno ideologico, difendendo la fantasia da ogni mortificante imposizione
morale, l’indipendenza dell’intimità da ogni intrusione delle parole d’ordine e
delle opinioni manipolate. Thomas Mann, però, in questo libro interpreta anche
l’estetismo in una chiave assai più seria di quanto non si faccia abitualmente,
l’estetismo come antidoto al politico e questa interpretazione la sento oggi
più che mai necessaria, nel clangore stultifero delle dichiarazioni di
programmi tutti uguali presentati con malcelata indifferenza formale e con
sciatta predisposizione al claim pubblicitario.
C’è uno spazio dove sempre di più mi rifugio per garantire al mio spirito una
sopravvivenza: è lo spazio della letteratura e dell’arte, ma, tenendo bene in
mente la lezione di Mann, anche queste due isole non sono isole felici. La vita
nell’epoca del nichilismo è malata, continua a dirci lo scrittore, ma ad essere
malata è anche l’arte. Ciò che ha avuto inizio come antinomia tra trascendenza
estetica e grossolano empirismo politico, tra lo stato malaticcio dello spirito
e la prorompente buona salute della vita, si ritrova e si unisce in una armonia
infernale. Ciò che si legge oggi sui giornali è diventato per me fastidioso background noise, rumore di fondo, che
oltre ad inquinare lo spazio della mia individualità fa rovinare anche la mia
estetica, le forme del mio vivere, il mio buon gusto, elementi che
costituiscono, a mio avviso, il nerbo di una morale alta o di una più
consistente etica dell’impegno. Ritorno ad un mio libro introvabile del 1996, e
scusatemi se mi autocito, I simulacri
della malinconia, nel quale sostenevo la tesi che l’estetica è la madre
dell’etica. Credo che anche l’estetismo manniano andasse in quella direzione. La realtà ha
finito col perpetrare l’oltraggio che lo spirito nella sua pretesa forza
creatrice pensava di potersi sentire come sciolto da lei, e invece non è così,
anzi avviene esattamente l’opposto. Dunque, se la vita si impone allo spirito,
la politica si è imposta umiliando l’arte e la letteratura che si credevano
autonome e così purtroppo non è. Allora io coltivo il mio io nell’oscurità del
mio spirito, my life in the bush of the
ghost, come cantava David Byrne nel 1980, e come lui spingo al massimo la
mia richiesta di estetismo come ultimo baluardo alla triviale generalizzazione
e volgarizzazione dei fatti della vita, che è stata declassata a cronaca che
non è neanche più storia.
da F. Cuomo, Saggio sulla vita offesa, Boopen, 2009
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