martedì 17 aprile 2012

Ammèn Drammaturgia ideazione scenica e regia Domenico Sabino


Ammèn
Drammaturgia ideazione scenica e regia Domenico Sabino
Voce corsara Marino Niola
Elementi scenici e costumi Alessandra Colantuono, Rosalba Pagano
Interpreti:
Alessandra D’Elia, Susy Mennella


  
Un certo tipo di drammaturgia non possiede recinti, vincoli, templi. Essa si esclude da tutto ciò che è il sacro, pur avendo costantemente presente quello sfondo indicibile e irrappresentabile che è – come diceva Wittgenstein – il mistico. Al "religioso", la drammaturgia contemporanea contrappone la dimensione dell'infinitamente aperto, del perfettamente transitabile dallo sguardo e dal corpo: Antonin Artaud, ma anche Beckett, Annibale Ruccello, ma anche Pier Paolo Pasolini, sono questi i riferimenti costanti di Ammèn, l’ultima scrittura drammaturgica di Domenico Sabino rappresentata alla Galleria Toledo di Napoli il 13,14 e 15 aprile. Uno speaker elenca una serie di infanticidi, su una scena minimale ma raffinata di Alessandra Colantuono e Rosalba Pagano composta da tre riquadri, uno giallo, uno rosso, uno bianco che ricordano gli allestimenti/sculture di Giulio Paolini: due donne diverse nei gesti e nel pathos farneticano deliri o “derive ossessive pulsionali”. La scrittura rilegge Il tradimento di Medea di Euripide e Anna Cappelli di Ruccello, due vendette femminili che consumano crimini atroci per vendicare abbandoni: la potenza primigenia e ctonia del femminile che si apre alla totale libertà e quindi allo sradicamento di qualsiasi porta, di qualsiasi confine e di qualsiasi dogana, di qualsiasi limite. La moderna psichiatria ci insegna che questi drammi, “puramente casuali”, orrendi nella loro semplicità, altro non sono che strategie inconsce elaborate dalle donne, il loro sprofondare nell’abisso della follia. Il teatro né fa metafore di sovversione del potere: Anna, abbandonata da Tonino, lo ammazza e se lo cucina con spezie aromatiche. Medea, abbandonata da Giasone, ne uccide la sposa Glauce e il padre di lei, Creonte e poi, in un delirio crescente anche i figli nati da lei e da Giasone. Cinquanta minuti di un dialogo serrato tra due bravissime interpreti: Alessandra D’Elia (intensamente drammatica) e Susy Mennella, in un gioco crudele di rimandi e depersonalizzazioni. Cammeo, apprezzato da chi scrive e pertinentissimo: il ballo di Anna con un alter ego inesistente che rimanda al finale di Salò-Sade di Pier Paolo Pasolini, quando i due giovanissimi repubblichini, cambiando stazione radio, ballano sulle note di Son tanto triste mentre fuori si consuma l’apoteosi del terrore. Cosa dire? Un bravo incondizionato a Domenico Sabino per questa piéce colta ed emotivamente intensa, calibrata in tempi giusti. Decidere di praticare questo teatro oggi, significa correre il rischio del silenzio della critica paludata, troppo occupata in amenità leggere, per apprezzare e scrivere di testi impegnativi che rinviano al meglio della drammaturgia contemporanea.
Così questo teatro può essere riassunto nella contrapposizione tra l'oscuro e il rappresentabile, tra il vedere e il comprendere, tra l'esteriore e l'interiore (nelle sue diverse declinazioni: lo psichico, il mentale, lo spirituale): Ammèn come il passaggio da una sorta di malattia dell’anima, condizione obbligata da una visione essenzialmente tragica, in cui il reale è un Augenweide, un "pascolo degli occhi" (secondo una bella definizione di Goethe), ad una visione intenzionalmente misterica e dunque veggente (Medea/Alessandra D’Elia), usando un termine particolarmente suggestivo e significativamente caro a Joyce del Finnegans Wake. Una visione, uno shining, una brillanza/luccicanza (ein Blitz, un lampo contrapposto all'Einblick, lo sguardo), che oltrepassa il limite del reale e coglie la presenza dell'indicibile, al quale dare forma e mostrarlo nell’unico modo possibile, quello tragico. Così Domenico Sabino, con Ammèn, rende giustizia al vuoto di rappresentazione e di testo teatrale che aleggia in questa Napoli post tutto, fondendo scritture “rischiose”. Quello che i critici paludati ormai non vogliono più sapere o fanno finta di non sapere è che il teatro è rischio drammaturgico, e tutto il resto è un’altra cosa “accedere al Male e contestare il Bene è la condizione stessa della libertà, il teatro autentico è sempre " prometeico", perché mette in discussione le norme delle convenzioni e i princìpi della prudenza” ( G. Batailles, La letteratura e il male, Ed. Se,2006).

Franco Cuomo

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