Ammèn
Drammaturgia ideazione scenica e regia Domenico Sabino
Voce corsara Marino Niola
Elementi scenici e costumi Alessandra Colantuono, Rosalba Pagano
Interpreti:
Alessandra D’Elia, Susy Mennella
Un certo tipo di drammaturgia non possiede recinti, vincoli,
templi. Essa si esclude da tutto ciò che è il sacro, pur avendo costantemente
presente quello sfondo indicibile e irrappresentabile che è – come diceva
Wittgenstein – il mistico. Al "religioso", la drammaturgia
contemporanea contrappone la dimensione dell'infinitamente aperto, del
perfettamente transitabile dallo sguardo e dal corpo: Antonin Artaud, ma anche
Beckett, Annibale Ruccello, ma anche Pier Paolo Pasolini, sono questi i
riferimenti costanti di Ammèn,
l’ultima scrittura drammaturgica di Domenico Sabino rappresentata alla Galleria
Toledo di Napoli il 13,14 e 15 aprile. Uno speaker
elenca una serie di infanticidi, su una scena minimale ma raffinata di
Alessandra Colantuono e Rosalba Pagano composta da tre riquadri, uno giallo, uno rosso, uno bianco
che ricordano gli allestimenti/sculture di Giulio Paolini: due donne diverse
nei gesti e nel pathos farneticano deliri o “derive ossessive pulsionali”. La scrittura rilegge Il tradimento di Medea di Euripide e Anna Cappelli di Ruccello, due vendette
femminili che consumano crimini atroci per vendicare abbandoni: la potenza
primigenia e ctonia del femminile che si apre alla totale libertà e quindi allo
sradicamento di qualsiasi porta, di qualsiasi confine e di qualsiasi dogana, di
qualsiasi limite. La moderna psichiatria ci insegna che questi drammi,
“puramente casuali”, orrendi nella loro semplicità, altro non sono che
strategie inconsce elaborate dalle donne, il loro sprofondare nell’abisso della
follia. Il teatro né fa metafore di sovversione del potere: Anna, abbandonata
da Tonino, lo ammazza e se lo cucina con spezie aromatiche. Medea, abbandonata
da Giasone, ne uccide la sposa Glauce e il padre di lei, Creonte e poi, in un
delirio crescente anche i figli nati da lei e da Giasone. Cinquanta minuti di
un dialogo serrato tra due bravissime interpreti: Alessandra D’Elia
(intensamente drammatica) e Susy Mennella, in un gioco crudele di rimandi e depersonalizzazioni.
Cammeo, apprezzato da chi scrive e pertinentissimo: il ballo di Anna con un
alter ego inesistente che rimanda al finale di Salò-Sade di Pier Paolo Pasolini,
quando i due giovanissimi repubblichini, cambiando stazione radio, ballano
sulle note di Son tanto triste mentre
fuori si consuma l’apoteosi del terrore. Cosa dire? Un bravo incondizionato a
Domenico Sabino per questa piéce
colta ed emotivamente intensa, calibrata in tempi giusti. Decidere di praticare
questo teatro oggi, significa correre il rischio del silenzio della critica
paludata, troppo occupata in amenità leggere, per apprezzare e scrivere di
testi impegnativi che rinviano al meglio della drammaturgia contemporanea.
Così questo teatro può essere riassunto nella contrapposizione tra
l'oscuro e il rappresentabile, tra il vedere e il comprendere, tra l'esteriore
e l'interiore (nelle sue diverse declinazioni: lo psichico, il mentale, lo
spirituale): Ammèn come il passaggio
da una sorta di malattia dell’anima, condizione obbligata da una visione
essenzialmente tragica, in cui il reale è un Augenweide, un "pascolo degli occhi" (secondo una bella
definizione di Goethe), ad una visione intenzionalmente misterica e dunque
veggente (Medea/Alessandra D’Elia), usando un termine particolarmente
suggestivo e significativamente caro a Joyce del Finnegans Wake. Una visione, uno shining, una brillanza/luccicanza (ein Blitz, un lampo contrapposto all'Einblick, lo sguardo), che oltrepassa il limite del reale e coglie
la presenza dell'indicibile, al quale dare forma e mostrarlo nell’unico modo
possibile, quello tragico. Così Domenico Sabino, con Ammèn, rende giustizia al vuoto di rappresentazione e di testo
teatrale che aleggia in questa Napoli post tutto, fondendo scritture
“rischiose”. Quello che i critici paludati ormai non vogliono più sapere o
fanno finta di non sapere è che il teatro è rischio drammaturgico, e tutto il resto
è un’altra cosa “accedere al Male e
contestare il Bene è la condizione stessa della libertà, il teatro autentico è sempre " prometeico", perché mette in discussione
le norme delle convenzioni e i princìpi della prudenza” ( G. Batailles, La letteratura e il male, Ed. Se,2006).
Franco Cuomo
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