Questa
riflessione di Stefano Rodotà potrebbe essere un appello alla Resistenza ...
Con la sua consueta chiarezza e passione civile, il costituzionalista-militante
Stefano Rodotà, spiega da che parte stiano Monti e i suoi.
Altro che
tecnici, altro che neutralità ....
Vi sono due punti nel decreto sulle liberalizzazioni che meritano d´essere
sottolineati per il loro notevole significato di principio. Il primo riguarda
l´eliminazione della norma che, vietando ai Comuni di costituire aziende
speciali per la gestione del servizio idrico, contrastava visibilmente con il
risultato del referendum sull´acqua come bene comune.Abbandonando questa via
pericolosa e illegittima, il governo non ha ceduto ad alcuna pressione
corporativa ma ha fatto il suo dovere, rispettando la volontà di 27 milioni di
cittadini. Certo, la costruzione degli strumenti istituzionali necessari per
dare concretezza alla categoria dei beni comuni incontrerà altri ostacoli nel
modo in cui lo stesso decreto disciplina nel loro insieme i servizi pubblici. Ma
il disconoscimento di una volontà formalmente manifestata con un voto avrebbe
gravemente pregiudicato il già precario rapporto tra cittadini e istituzioni,
inducendo ancor di più le persone a dubitare dell´utilità di impegnarsi nella
politica usando tutti i mezzi costituzionalmente legittimi. Vale la pena di aggiungere che questa scelta può essere
valutata considerando anche l´annuncio del ministro Passera relativo
all´assegnazione delle frequenze, da lui definite nella conferenza stampa come
“beni pubblici” di cui, dunque, non si può disporre nell´interesse esclusivo di
ben individuati interessi privati. Senza voler sopravvalutare segnali ancora
deboli, si può dire che il ricco, variegato e combattivo movimento per i beni
comuni non solo ha riportato una piccola, importante vittoria, ma ha trovato una
legittimazione ulteriore per proseguire nella sua azione.
Questa associazione
tra acqua e frequenze non è arbitraria, poiché la ritroviamo nelle proposte
della Commissione ministeriale sulla riforma dei beni pubblici. Si dovrebbe
sperare che i partiti non continuino soltanto a fare da spettatori alle gesta
del governo, ma comincino a rendersi conto delle loro specifiche responsabilità.
Tra queste, oggi, vi è proprio quella che riguarda una nuova disciplina dei
beni, per la quale già sono state presentate proposte in Parlamento, e che è
indispensabile perché le categorie dei beni corrispondano a una realtà economica
e sociale lontanissima da quella che, sessant´anni fa, costituiva il riferimento
del codice civile. Se questa riforma fosse stata già realizzata, non sarebbe
stata possibile la vergogna del “beauty contest” sulle frequenze. E ci
risparmieremmo molte delle approssimazioni su una via italiana al risanamento
che contempli massicce dismissioni di beni pubblici, quasi che la loro vocazione
sia solo quella di far cassa e non la realizzazione di specifiche finalità che
le istituzioni pubbliche non possono abbandonare.
Tutt´altra aria si respira
quando si considera l´articolo 1 del decreto. Qui non si trova uno dei soliti
inutili e fumosi prologhi in cielo che caratterizzano molte leggi. Si fanno,
invece, tre inquietanti operazioni: si prevede l´abrogazione di una serie
indeterminata di norme, affidandosi a indicazioni assai generiche, che
attribuiscono al governo una ampiezza di poteri tale da poter sconfinare quasi
nell´arbitrio; si impongono criteri interpretativi altrettanto indeterminati e
arbitrari; soprattutto si reinterpreta l´articolo 41 della Costituzione in modo
da negare gli equilibri costituzionali lì nitidamente definiti. L´obiettivo
dichiarato è quello di liberalizzare le attività economiche e ridurre gli oneri
amministrativi sulle imprese. Ma la via imboccata è quella di una strisciante
revisione costituzionale, secondo una logica assai vicina a quella di
tremontiana memoria, poi affidata a uno sciagurato disegno di legge
costituzionale sulla modifica dell´articolo 41, ora fortunatamente fermo in
Parlamento.
Indico sinteticamente le ragioni del mio giudizio critico. Le
norme da abrogare vengono individuate parlando di limiti all´attività economica
“non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e
compatibile con l´ordinamento comunitario nel rispetto del principio di
proporzionalità”; e di divieti che, tra l´altro, “pongono limiti, programmi e
controlli non ragionevoli ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto
alle finalità pubbliche dichiarate”. Tutte le altre norme devono essere
“interpretate e applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente
proporzionato rispetto alle perseguite finalità di interesse pubblico generale”.
Non v´è bisogno d´essere giurista per rendersi conto di quanti siano i problemi
legati a questo modo di scrivere le norme. Non è ammissibile che l´”interesse
pubblico generale” sia identificato con il solo principio di concorrenza, in
palese contrasto con quanto è scritto nell´articolo 41. Il sovrapporsi di
diversi soggetti nella definizione complessiva delle nuove regole può creare
situazioni di incertezza e di conflitto. Il bisogno di semplificazione e di
cancellazione di inutili appesantimenti burocratici non può giustificare il
riduzionismo economico, che rischia di sacrificare diritti fondamentali
considerati dalla Costituzione irriducibili alla logica di mercato. Si pretende
di imporre i criteri da seguire nell´interpretazione di tutte le norme in
materia: ma le leggi si interpretano per quello che sono, per il modo in cui si
collocano in un complessivo sistema giuridico, che non può essere destabilizzato
da mosse autoritarie, dall´inammissibile pretesa di un governo di obbligare gli
interpreti a conformarsi alle sue valutazioni o preferenze. In anni recenti, si
è dovuta respingere più d´una volta questa pretesa, che altera gli equilibri tra
i poteri dello Stato.
L´operazione, di chiara impronta ideologica, è dunque
tecnicamente mal costruita dal governo dei tecnici. Ma, soprattutto, deve essere
rifiutata perché vuole imporre una modifica dell´articolo 41 della Costituzione,
attribuendo valore assolutamente preminente all´iniziativa economica privata e
degradando a meri criteri interpretativi i riferimenti costituzionali alla
sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Questo capovolgimento della scala
dei valori è inammissibile. Un mutamento così radicale non è nella disponibilità
del legislatore ordinario, e dubito che possa essere oggetto della stessa
revisione costituzionale. Quando sono implicate libertà e dignità, siamo di
fronte a quei “principi supremi” dell´ordinamento che, fin dal 1988, la Corte
costituzionale ha detto che non possono “essere sovvertiti o modificati nel loro
contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale”. Certo,
invocando una qualsiasi emergenza, questo può concretamente avvenire. Allora,
però, si è di fronte ad un mutamento di regime. Se ancora sopravvive un po´ di
spirito costituzionale, su questo inizio del decreto, e non nella difesa di
questa o quella corporazione, dovrebbe esercitarsi il potere emendativo del
Parlamento.
Da La Repubblica del 23/01/2012.
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