C’è
uno spazio nella lingua di Giacomo Leopardi
che forse da sempre prediligo rispetto alla lingua poetica: è lo spazio
linguistico di Leopardi filosofo, uno spazio spesso saltato se non trascurato
dalle antologie scolastiche o da ciò che si fa studiare di solito a scuola,
dove, Giacomo Leopardi è collocato all’inizio della poesia romantica italiana.
Lo spazio linguistico di cui parlo è racchiuso nelle 4526 pagine dello Zibaldone dei pensieri, meglio noto come lo Zibaldone ovvero una
serie di appunti frammentari scritti tra il 1817 e il 1832 e in un’altra
operetta molto ridotta ma non meno importante, mi riferisco al Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’Italiani composto tra il 1824 e il 1826, cronologicamente coevo alla
prima stesura delle Operette Morali
che in misura minore anche potrebbero essere incluse in questo spazio
filosofico ma che invece preludono già
ai Canti e a componimenti in prosa, divise tra dialoghi e novelle dallo stile
medio e ironico. Voglio soffermarmi dunque sul Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani sia per
la sua profonda riflessione morale sia per l’acuta introspezione antropologica
attraverso la quale Leopardi ci fornice uno spaccato culturale della società italiana, che sembrerebbe
essere stato scritto ai giorni nostri, tanto veritiere e confermate sono le sue
analisi. Il Discorso sugli Italiani
fu composto a Recanati probabilmente tra la primavera e l’estate del 1824,
quando ancora era viva in Leopardi l’esperienza del viaggio a Roma, in seguito
alle proposte di collaborazione all’“Antologia” rivoltegli da Vieusseux nelle lettere del
gennaio-marzo di quell’anno. Il testo rimase però incompiuto, e in Italia fu
pubblicato e conosciuto solo nel 1906. Il Discorso, opera fondamentale nella
riflessione filosofico-politica leopardiana (la cui diagnosi sull’antropologia
italiana, come ho già detto, è oggi ancora attuale), fa parte di uno stile di
pubblicistica molto in voga tra il sette-ottocento detto del piccolo genere letterario, libelli che
affrontavano argomenti che si discostavano dall’esercizio letterario tout court e che di solito appunto o trattavano
argomenti filosofici o politici o l’uno e l’altro insieme come in questo caso che tratta della
descrizione dei caratteri nazionali: lo stesso Leopardi cita fra i “precedenti”
il romanzo epistolare Corinne ou l’Italie
di M.me de Staël (1807) e gli scritti di Giuseppe Baretti. Contesto
naturalmente, le valutazioni di De Sanctis e di Croce, ovvero il vecchio filone
della cultura laicista italiana, che nega la filosofia di Leopardi, ritenendola
scarsamente significativa, non originale né profonda. Il pensiero leopardiano
prende l’avvio da una meditazione sull’infelicità in sé, della quale vengono
indagate le cause, le dinamiche e le conseguenze. Leopardi così respinge le
ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo, si ribella alla
meschinità del suo tempo e alle convenzioni del suo ambiente, che giudica arido
e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in
cui gloria e fama, unici antidoti contro il grigiore della vita, erano
possibili, conseguibili. Si scaglia con veemenza contro i miti dell’Ottocento,
la storia e il progresso, e contro la stoltezza di un secolo che dalla
filosofia della storia di Hegel, esalta l’uomo come creatore della realtà.
Leopardi era troppo immerso a tradurre Mosco, Lucrezio, Epitteto ed altri
grandi classici per approdare alla dialettica hegeliana, approdò però fortuitamente
al Romanticismo dopo la scoperta dei
poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, e lo stesso Foscolo,
divenendone, per i suoi contemporanei, un esponente principale, pur non volendosi
mai definire romantico perché di formazione non lo era. Riflessione filosofica ed empito poetico
fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più
tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista ante litteram o
almeno un precursore dell'Esistenzialismo. Per Leopardi si tratta di un
antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con forza, affermando che la
storia non è progresso, ma regresso dal primitivo stato di natura, buono e
felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente. Sono fortissimi i richiami
e la conoscenza di Rousseau, che però Leopardi credo non abbia mai citato. Per
il Filosofo/Poeta la realtà è illusoria: manifestando un’evidente consonanza
con Schopenhauer, Leopardi sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo la
realtà niente altro che sogno, come scrive anche Calderòn de la Barca. Questo concetto è
ribadito nelle opere della maturità : le Operette morali e Canti posteriori al 1827.
Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo
genio familiare si legge: "Sappi
che dal vero al sognato non corre altra differenza se non che questo può
qualche volta essere molto più bello e più dolce, mentre quello non può esserlo
mai".
Dunque
queste le radici filosofiche di Leopardi, una filosofia antisistematica e
frammentaria che anticipa molte delle filosofie antisistematiche del secolo
successivo.
Di
questa filosofia è intriso il Discorso. Il
testo è diviso in cinque parti, dedicate la prima ad una introduzione in cui si
motiva la necessità di una nuova descrizione dei costumi degli Italiani; la
seconda all’analisi delle peculiarità che caratterizzano la società italiana;
la terza ad un confronto fra la situazione italiana e quella delle altre
nazioni d’Europa, e all’invettiva contro l’esaltazione del Medioevo,
quest’ultima, dovrebbe – a mio parere – smantellare la visione di un Leopardi
con una sensucht romantica e
accreditare una volta per tutte quella di un Leopardi sensista e ancora molto
intriso di cultura meccanicistica e illuminista
; la quarta all’individualismo (“Gli usi e i costumi in Italia si
riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio,
qual che egli si sia”), alla differenza di costumi tra città e province e alla
necessità di promuovere la civiltà “come
rimedio di se medesima” (ciò a causa della situazione paradossale
dell’Italia, che è troppo poco civile per godere dei benefici della
civilizzazione, come Francia Germania e Inghilterra; ma troppo civile per
godere ancora dei benefici dello stato di natura, come Spagna Portogallo
Polonia e Russia); la quinta infine agli effetti del clima sui caratteri
nazionali e alla “decisa e visibile superiorità presente delle nazioni
settentrionali sulle meridionali”. Emerge dalla lettura del testo,
un’attribuzione che Giacomo Leopardi connota come il tratto specifico degli
italiani: un disincanto/disillusione, che farebbe degli italiani il popolo più
filosofo dell’Europa di allora, ma, e qui cito testuale, “ questa caratteristica fa si che gli italiani non temono e non curano
per conto alcuno di esser o parere diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal
pubblico,in nessuna cosa e in nessun senso.[…]Quindi non havvi assolutamente
buon tuono,o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi
interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni
cosa.Ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano fa tuono e maniera a
sé. Non avendovi buon tuono, non possono
avervi convenienza di società(bienséances). Mancando queste, e mancandola
società stessa non può avervi gran cura del proprio onore, o l’idea dell’onore
e delle particolarità che l’offendono[…]ciascun italiano è presso a poco
onorato e disonorato[…]perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta” [1].
Credo che questo Leopardi sia un intellettuale ancora più sofferto e pessimista
di quanto non sia percepibile nei Canti. A questo Leopardi, il mondo opprimente
di Recanati, non gli permetteva quella socialità che lui, attraverso
corrispondenze serrate, immaginava essere oltre
la siepe , ma, quale grande delusione quando si accorge che gli stessi
salotti fiorentini tradiscono quella “ convenienza di società” per un
individualismo selvaggio e esasperato. Questo testo può essere affrontato solo
con un acuto spirito critico e rimane
deluso il lettore che si aspetti da Leopardi un discorso un po’ folcloristico
sugli usi e sui costumi dell’Italia (o almeno di quella a lui contemporanea).
Intanto il termine «costumi» ha un senso più ricco e profondo che non «abitudini»
o «usanze» (che per lo più consistono in tradizioni ricevute dal passato e non
definiscono, se non superficialmente, il carattere di un popolo), e designa
piuttosto una cultura, una mentalità e un modo di essere, conseguenti al
diverso sviluppo della civiltà e della cultura italiana in seno ai popoli
europei, e vale quindi come regola morale o di comportamento, come condotta o
modo di vivere.
Dal
testo emerge pure che alla base del discorso leopardiano, scritto nel 1824, sta
la radicata convinzione che i popoli antichi erano superiori (e più felici)
rispetto a quelli moderni retaggio di un illuminismo di stampo roussouviano. E
ciò perché la civiltà ha distrutto le basi stesse della morale, e di
conseguenza è preferibile una civiltà «media» piuttosto che una evoluta. Perché
il progresso (o meglio il pensiero filosofico e scientifico che ne sono la
causa) distruggono la sorgente della sola felicità possibile che consiste
nell’immaginazione che permette la fuga da una natura matrigna e crudele. Per
Leopardi i popoli che riescono spezzare questa oppressione ci sono le
popolazioni settentrionali europee le quali si rivelano superiori in tutto (e non solo
nella letteratura e nel pensiero filosofico) perché in loro è più fervida
l’immaginazione. «L’unione della civiltà
con l’immaginazione è lo stato degli antichi»: in questa frase del saggio
leopardiano c’è il suo senso della storia e la sua pratica poetica e letteraria».
Detto in altri termini, la filosofia (e la civiltà che essa ha prodotto, specie
quella illuminista) ha messo sotto gli occhi di tutti, con tragica evidenza,
l’infelicità irrimediabile dell’uomo. Solo le illusioni che nascono dalla
fantasia e dall’immaginazione sono in grado di rendere l’uomo, non diremo
felice, ma meno infelice, cioè di alleviare la sua tristezza metafisica. Questo
spazio linguistico concettuale definisce le sua premesse illuministiche (e quindi sensiste e
infine materialistiche).
Ma
Leopardi malgrado lui è troppo italiano per essere un illuminista alla Voltaire
e antesignano di una dialettica
dell’illuminismo di horckeimeriana e
adorniana memoria, sviluppa poi un discorso contro la civiltà dei lumi,
esaltando non la ragione, ma, romanticamente, la fantasia, come affermerà a più
chiare lettere altrove e anche in poesia :
“A noi ti vieta/ il vero appena è giunto,/ o caro immaginar;/[…] allo stupendo/
poter tuo primo ne sottraggon gli anni;/ e il conforto perì dei nostri affanni.”[2]).
E anche qui, come spesso accade nel grande Filosofo/Poeta, ritornano i miti e i
motivi fondamentali della sua speculazione e la disperata battaglia contro ciò
che aggrava il desolato destino dell’umanità sulla terra. Ma il Discorso sui
costumi andrebbe proposto nelle scuole o fatto conoscere più delle sue poesie
più famose, perché è anche e soprattutto un approccio leopardiano per costruire
una morale laica. Il Filosofo/Poeta tenta di mettere in piedi un’etica, fondata
sull’onore, o meglio sullo «spirito di
onore», anche se sa bene quanto sia fragile questo fondamento (e lo
riconosce apertamente)[3].
Leopardi
è ormai lontano dalla fede cristiana. E sente che «la morale […] è distrutta, e
non è credibile che ella possa risorgere per ora, né chi sa fino a quando, e
non se ne vede il modo». Ma, secondo il Filosofo/Poeta, le cause del male e
dell’immoralità starebbero nella disperazione che nasce dalla coscienza della
vanità delle cose e dall’inutilità della vita. Certo anche nel Discorso ricorrono con frequenza i ben
noti temi leopardiani (caduta delle illusioni, vanità del tutto, riso
disperato…), ma il Filosofo/Poeta si cimenta in un tentativo disperato per
ritrovare le basi di una convivenza possibile, pur nell’orizzonte desolato di
un mondo privo di Dio e dei valori che a quella fede erano legati. E lo fa
affrontando un impegnativo discorso politico sulla situazione italiana, sulla
psicologia di un paese profondamente diviso, ma in cui tuttavia avverte dei «fratelli» («perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè
quasi alla mia famiglia e a miei fratelli?»). E non sarà un caso se il
termine «fratelli» ricorre ben due volte nel Discorso.
Di
discorsi «politici» Leopardi ne ha affrontati o avviati parecchi anche, come ho
scritto in premessa, nel suo Zibaldone di
pensieri. Ma quelle erano le pagine di un diario segreto, di un «giornale dell’anima» non destinato,
almeno così com’era, alla pubblicazione. Mentre le idee che il Filosof/Poeta
esprime nel Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’italiani rivelano un impegno ben altrimenti
costruttivo rispetto alle pagine satiriche della Batracomiomachia (dove Leopardi non salva nulla e nessuno) o a
quelle stravolte dei Pensieri (dove
la crudezza polemica non apre possibilità di dialogo, ma lo nega in partenza).
Qui invece si respira già l’aria della Ginestra
(1836), si avverte lo stesso spirito di fratellanza universale (quello che ci
fa capire di quali aperture fosse capace Leopardi, senza i condizionamenti
dovuti a un’infelice situazione storica e sociale).
Così,
l’analisi leopardiana è spietatamente lucida. L’Italia è un paese dove non si conversa o si discute pacatamente,
ma si schernisce l’interlocutore; un paese in cui non si gareggia per l’onore,
e da uomini di onore, ma ci si combatte all’ultimo sangue. L’Italia è una terra
dove non c’è convivenza civile, ma forzata; una società in cui ci si sbrana
anziché collaborare al bene comune; un paese senza amor patrio, dove lo scherno
dell’avversario prevale su tutto. L’autore vede ben al di là dei facili
patriottismi e delle euforie risorgimentali, quando sente che nella penisola mancano quei legami che fanno di una
collettività una «società stretta» e una «società buona», cioè un popolo di
«fratelli», dove sarebbe possibile una morale universalmente valida,
fondata non sulla legge (perché è una base poco solida la paura delle pene
minacciate da un codice), ma sul senso dell’onore che indurrebbe a fare il bene
per meritare il plauso e a fuggire il male per non incorrere nel disonore.
Ecco, solo per queste crude e attualissime riflessioni ho prediletto questo libello,
dirò di più, ma non credo sia importante in un convegno di studi su Leopardi,
che non ho amato o se volete apprezzato il film di Mario Martone “ Il Giovane Favoloso” che in qualche modo ha troppo attualizzato la
figura del filosofo/poeta . Giovane ribelle che a ventiquattro anni lascia finalmente il natio borgo selvaggio, va a Firenze ma non si adatta alle regole
dell'alta società italiana che lo celebra e lo critica e infine lo emargina. E
poi, insieme all'amico Ranieri con il quale sembra adombrarsi una passione nemmeno
tanto segreta omosessuale l'arrivo a Napoli che è raccontata nel film come un colpo al cuore e un colpo di fulmine. Martone fa innamorare Leopardi di Napoli e ce
lo descrive innamorato della gente dei quartieri popolari: degli scugnizzi,
delle prostitute, delle taverne, dei bicchieri di vino e dei taralli. Finché
scoppia il colera e l'amico Ranieri lo trascina a Torre Annunziata ai piedi del
Vesuvio dove scrive La ginestra, la
lunga poesia che racchiude il suo pensiero e con la quale si chiude il film.
Una forzatura troppo forte per un filosofo/poeta che ha rincorso per la sua
breve vita la convenienza della società, ovvero la bienséances e la politesse così lontane dalla società italiana
allora come oggi.
Franco Cuomo
[1] Giacomo
Leopardi, Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’Italiani, Piano B Edizioni, Prato 2010, cit. pp.
29-30;. Sul concetto di bienséances Benedetta
Craveri, La civiltà della conversazione,
Adelphi, Milano 2008, pp.46-67 e 261-270;
[2] Giacomo
LleopardiAd Angelo Mai, v.100-105
[3] Giacomo
Leopardi, Discorso…op. cit.
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