venerdì 19 giugno 2015

Ma la rappresentazione del paesaggio nelle foto o nei video dice sempre la verità?








E’ l’immagine che determina la realtà, la sua rappresentazione pittorica prima e fotografica o cinematografica virtuale, poi o, viceversa, il paesaggio è già nella sua realtà naturale fondamentalmente come natura antropica organizzata attraverso segni?
Il problema dell’immagine e dei suoi rapporti con la realtà e la comunicazione delle immagini, ecco a questo ho pensato costantemente per anni, quando guardavo un quadro o una fotografia, rimanendo spesso affascinato dalle immagini e scambiandole per la realtà: ormai questa fascinazione sembra essere diventa la condizione alla quale sottostanno tutti. 

Ne erano consapevoli Jacques Lartigue, Henri Cartier-Bresson, Richard Avedon, Annie Leibovitz, Helmut Newton, solo per citare alcuni grandi, ne sono tuttora consapevoli e giocano su questo inganno: David Lachepelle, Pierre e Gilles, Terry Richardson, Cheiko Leidmann per citarne altri. Oggi tutti sono vittime di questa fascinazione.

Anche la realtà del paesaggio, che non è più – ma non lo è mai stato – immediatamente naturale, ma sempre totalmente antropico, obbedisce a queste relazioni comunicative. Il linguaggio deìttico della fotografia fa sì che in essa  il paesaggio si identifichi sempre con la rappresentazione del luogo. Deìttico (dal greco deíknymi, "indico, mostro"): ed è questo elemento linguistico che viene usato per indicare qualcosa o qualcuno senza nominarlo espressamente ma solo alludendo ad esso attraverso la sua rappresentazione e che, perciò, può essere decifrato da chi guarda soltanto sulla base della conoscenza dei fattori relativi alla situazione comunicativa. Per quanto, tale identificazione (una tautologia secondo Roland Barthes), finisca per realizzarsi di fatto solo nell'immagine fotografica, non si può parlare di rappresentazione documentaria della realtà del  paesaggio senza il riferimento, più o meno preciso, a un luogo determinato[1] .

 La rappresentazione della realtà del luogo non solo lo delimita ma, costituendone materialmente l’iconografia, ne inaugura  anche la poetica[2]. Gilles Deleuze nella sua indagine sull’immagine-tempo avviluppa in un rincorrersi continuo lo spazio del reale  e quello dell’immaginario, prodotto dalla rappresentazione: "Abbiamo visto come, nei percorsi più larghi, percezione e ricordo, reale e immaginario, fisico e mentale o piuttosto le loro immagini si rincorressero senza posa, correndo l’una dietro l’altra e rinviando l’una all’altra attorno a un punto di indiscernibilità. Ma è proprio il cerchio più piccolo che costituisce questo punto di indiscernibilità, cioè la coalescenza tra immagine attuale e immagine virtuale, l’immagine a due facce, attuale e virtuale insieme[3].

E’ solo con i romantici, che il paesaggio assume valore simbolico e di cui il pittore tedesco Friedrich è l'interprete più conosciuto. L’iconografia di quel tipo di rappresentazione apre alla poetica della realtà del paesaggio, intesa come  possibile interpretazione della realtà tout court. Con i romantici si apre l’epoca del vedutismo e la costruzione enfatica dei luoghi, che, diventano altro da ciò che spesso realmente sono. Certamente anche la tradizione descrittiva dell'arte nordica risponde alla parola d'ordine che è quella di mostrare, ma anche di trascendere il reale, ma proprio qui si colloca la differenza che abbiamo già sottolineato, e che avrà conseguenze decisive, tra l'indicazione enfatica di un soggetto sommerso dall'emozione del paesaggio e la rappresentazione  pretesa oggettiva dell’immagine fotografica, che si propone anche come via d'accesso alla conoscenza del mondo fisico e della  realtà antropica del paesaggio e non solo di questo. Dunque, questa mia confessione va nella direzione di uno smascheramento  del potere ipnotico della rappresentazione per immagini.

Questo tema, essenzialmente visivo, pone la discussione al di là della bipolarità, “realtà-immagine”, "paesaggio- immagine" o "paesaggio- ambiente" e trova la sua collocazione in relazione alle tematiche filosofiche della percezione e dell'immaginazione, pur non rinunciando a considerare i problemi storici che questi argomenti portano con sé. Da questo punto di vista, infatti, è la fotografia, ma anche il cinema e  la televisione, e ultima arrivata, la realtà virtuale con la loro  funzione documentaria, si impongono come i veri  protagonisti sia della storia della rappresentazione della realtà sia della mutata concezione del  paesaggio, sia della illustrazione di quella e di questo. Infine, la grande rivoluzione che la riproducibilità tecnica porta con sé, ripropone le riflessioni sulla percezione e sull'immaginazione visiva nei termini di una "complessità"[4] nella quale i fattori storici e sociali del mutamento rivendicano i propri diritti, ovvero: quando comin ciamo a parlare di nuovo di cose concrete? Ogni epoca, in cui possano riconoscersi decise alterità di logiche e filosofie produttive, palesa  i propri regimi di complessità.

 Da sempre, soprattutto la comunicazione - con le sue peculiarità - ne rappresenta la testimonianza tangibile e ne è la memoria, e nella crisi dei sistemi sociali nella quale oggi drammaticamente e tristemente solo l’economia sembra dettar legge, ne accoglie le connotazioni, ne accetta le sfide, e definisce i suoi caratteri. In un breve saggio del 1987, si osservava: “viviamo oggi (...) in un mondo in cui vanno maturandosi mutamenti scientifico-tecnologici e filosofici dei quali è difficile valutare le conseguenze estreme sul piano della società e del territorio (...) Quanto va sotto il nome di terza rivoluzione tecnologica non è (...) una semplice trasformazione di macchine, come la precedente, bensì un'evoluzione del pensiero umano, esprimibile sì in termini di maggior rendimento, ma, soprattutto, in termini di diversa penetrazione cognitiva (...) Riusciamo, così ad affrontare nuove razionalità, differenti rispetto a quella classica, fondate sul carattere della complessità: razionalità per le quali il disordine sembra prevalere sull'ordine, l'ambiguo sul chiaro (...) lo specifico sull'universale"[5].

L'accentuazione del carattere totalizzante della complessità in epoca di network society pone il problema di una sua poderosa alterità rispetto ai periodi precedenti, al punto tale da indurre a rivedere con molta probabilità le stesse basi epistemologiche dei background cognitivi di era moderna la information age, pretende il diritto di verità. Nozioni altrettanto esegetiche, tuttavia, emergono anche in ambiti concettualmente evoluti delle tecnologie della comunicazione e della rappresentazione. Questa rete di legami, che nel tempo si infittisce sempre più, costituisce una delle ragioni della crescente complessità della realtà in cui siamo immersi.

 Dunque se si rappresenta un paesaggio, qualsiasi siano i mezzi o le tecnologie adoperate, bisogna ricordare sempre di andare oltre i limiti della rappresentazione, ovvero allontanandosi: accedere allo spazio spogliato dalla sua enfasi, apparizione scarna di una scena quale essa realmente è: questa la parola d'ordine della rappresentazione della realtà e insieme la definizione della sua comunicazione.

 Questa apertura del campo dell'immagine, coincide con un allontanamento del punto di vista: l'orizzonte diventa il lointain, lo sfondo, l'infinito e la rappresentazione della realtà del  paesaggio si avvicina alla poetica dello spazio. Inoltre, gli artifici dell’immagine virtuale  modificano il processo percettivo connotando il paesaggio rappresentato di valori e contenuti che modificano radicalmente il luogo rappresentato: il rallenty o al contrario lo scorrimento veloce di alcune immagini, come il traffico in una città, lo scorrimento delle nuvole, il sorgere e il tramonto degli sole e degli astri o lo sbocciare dei fiori.

 L'ampliamento dei campi dell'immagine, intesi come abolizione della delimitazione, hanno soprattutto lo scopo di creare un'illusione percettiva: privata dei suoi limiti, l’immagine (la finzione) viene confusa con la realtà e il gioco della rappresentazione raggiunge i suoi effetti parossistici. Un esempio di tutto ciò è dato dal concetto di panorama nella rappresentazione del paesaggio. Il panorama è una rappresentazione spettacolare del paesaggio che invece di raffigurare il luogo vuol creare l'illusione della sua presenza fisica: «Nel loro tentativo di produrre, nella natura rappresentata, trasformazioni fedeli fino all'illusione, i panorami rinviano in anticipo, oltre la fotografia, al film e al sonoro»[6]

La collettività, di per sé, non esiste più se non in quanto massa informe nelle mani di chi è in grado di condurre il famoso flusso di informazioni nella direzione che più gli va a genio, e il tanto bramato intellettuale, che dovrebbe essere uno scoglio di contenimento di questo tsunami, ha in mano pochi strumenti e li usa in maniera disarticolata e inefficace, assemblando pezzi di discorsi altrui nel tentativo di formare un'opinione che non sia nemmeno troppo non-condivisibile, altrimenti—è ovvio—su Internet cade nel vuoto .Questo è ciò che accade ormai comunemente con tutte le immagini: la realtà rappresentata, diventa illusoriamente la realtà tout cour e si rende complice di un grande inganno.


Da, Franco Cuomo, Confessioni, di prossima pubblicazione





[1]   Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi , Torino, 1981;  è anche ciò che Barthes chiama il «disordine costitutivo dell'immagine».
[2] Cristina De Vecchi , La rappresentazione del paesaggio , Spazio filosofico , Collana di libri in linea "Il dodecaedro"
[3] Gilles Deleuze, L'image-mouvement. Cinéma 1, Les éditions de Minuit (coll. « Critique »), Paris, 1983, 298 p. ;
Gilles Deleuze, L'image-temps. Cinéma 2, Les éditions de Minuit (coll. « Critique »), Paris, 1985, 378 p.
[4] Ylia Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza, Torino 1981; G. Bocchi e M. Cerruti (a cura di), La sfida della complessità, Milano 1988.
[5] Ciribini G., La normativa tecnica di fronte alle problematiche attuali,, in Edilizia scolastica e culturale, n. 4, 1987
[6] Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi , Torino, 1981

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