E’
l’immagine che determina la realtà, la sua rappresentazione pittorica prima e
fotografica o cinematografica virtuale, poi o, viceversa, il paesaggio è già
nella sua realtà naturale fondamentalmente come natura antropica organizzata
attraverso segni?
Il problema dell’immagine e dei suoi rapporti con la realtà e
la comunicazione delle immagini, ecco a questo ho pensato costantemente per
anni, quando guardavo un quadro o una fotografia, rimanendo spesso affascinato
dalle immagini e scambiandole per la realtà: ormai questa fascinazione sembra
essere diventa la condizione alla quale sottostanno tutti.
Ne erano consapevoli
Jacques Lartigue, Henri Cartier-Bresson, Richard Avedon, Annie Leibovitz,
Helmut Newton, solo per citare alcuni grandi, ne sono tuttora consapevoli e
giocano su questo inganno: David Lachepelle, Pierre e Gilles, Terry Richardson,
Cheiko Leidmann per citarne altri. Oggi tutti sono vittime di questa
fascinazione.
Anche la realtà del paesaggio, che non è più –
ma non lo è mai stato – immediatamente naturale, ma sempre totalmente
antropico, obbedisce a queste relazioni comunicative. Il linguaggio deìttico
della fotografia fa sì che in essa il
paesaggio si identifichi sempre con la rappresentazione del luogo. Deìttico
(dal greco deíknymi, "indico, mostro"): ed è questo elemento
linguistico che viene usato per indicare qualcosa o qualcuno senza nominarlo
espressamente ma solo alludendo ad esso attraverso la sua rappresentazione e
che, perciò, può essere decifrato da chi guarda soltanto sulla base della
conoscenza dei fattori relativi alla situazione comunicativa. Per quanto, tale
identificazione (una tautologia secondo Roland Barthes), finisca per
realizzarsi di fatto solo nell'immagine fotografica, non si può parlare di
rappresentazione documentaria della realtà del
paesaggio senza il riferimento, più o meno preciso, a un luogo
determinato[1]
.
La rappresentazione della realtà del luogo non solo lo delimita ma,
costituendone materialmente l’iconografia, ne inaugura anche la poetica[2].
Gilles Deleuze nella sua indagine sull’immagine-tempo avviluppa in un
rincorrersi continuo lo spazio del reale
e quello dell’immaginario, prodotto dalla rappresentazione: "Abbiamo visto come, nei percorsi più larghi,
percezione e ricordo, reale e immaginario, fisico e mentale o piuttosto le loro
immagini si rincorressero senza posa, correndo l’una dietro l’altra e rinviando
l’una all’altra attorno a un punto di indiscernibilità. Ma è proprio il cerchio
più piccolo che costituisce questo punto di indiscernibilità, cioè la
coalescenza tra immagine attuale e immagine virtuale, l’immagine a due facce,
attuale e virtuale insieme”[3].
E’
solo con i romantici, che il paesaggio assume valore simbolico e di cui il
pittore tedesco Friedrich è l'interprete più conosciuto. L’iconografia di quel
tipo di rappresentazione apre alla poetica della realtà del paesaggio, intesa
come possibile interpretazione della
realtà tout court. Con i romantici si apre l’epoca del vedutismo e la
costruzione enfatica dei luoghi, che, diventano altro da ciò che spesso
realmente sono. Certamente anche la tradizione descrittiva dell'arte nordica
risponde alla parola d'ordine che è quella di mostrare, ma anche di trascendere
il reale, ma proprio qui si colloca la differenza che abbiamo già sottolineato,
e che avrà conseguenze decisive, tra l'indicazione enfatica di un soggetto
sommerso dall'emozione del paesaggio e la rappresentazione pretesa oggettiva dell’immagine fotografica,
che si propone anche come via d'accesso alla conoscenza del mondo fisico e
della realtà antropica del paesaggio e
non solo di questo. Dunque, questa mia confessione va nella direzione di uno
smascheramento del potere ipnotico della
rappresentazione per immagini.
Questo
tema, essenzialmente visivo, pone la discussione al di là della bipolarità,
“realtà-immagine”, "paesaggio- immagine" o "paesaggio-
ambiente" e trova la sua collocazione in relazione alle tematiche
filosofiche della percezione e dell'immaginazione, pur non rinunciando a
considerare i problemi storici che questi argomenti portano con sé. Da questo
punto di vista, infatti, è la fotografia, ma anche il cinema e la televisione, e ultima arrivata, la realtà
virtuale con la loro funzione
documentaria, si impongono come i veri
protagonisti sia della storia della rappresentazione della realtà sia
della mutata concezione del paesaggio,
sia della illustrazione di quella e di questo. Infine, la grande rivoluzione
che la riproducibilità tecnica porta con sé, ripropone le riflessioni sulla
percezione e sull'immaginazione visiva nei termini di una
"complessità"[4]
nella quale i fattori storici e sociali del mutamento rivendicano i propri
diritti, ovvero: quando comin ciamo a parlare di nuovo di cose concrete? Ogni
epoca, in cui possano riconoscersi decise alterità di logiche e filosofie
produttive, palesa i propri regimi di
complessità.
Da sempre, soprattutto la comunicazione - con
le sue peculiarità - ne rappresenta la testimonianza tangibile e ne è la
memoria, e nella crisi dei sistemi sociali nella quale oggi drammaticamente e
tristemente solo l’economia sembra dettar legge, ne accoglie le connotazioni,
ne accetta le sfide, e definisce i suoi caratteri. In un breve saggio del 1987,
si osservava: “viviamo oggi (...) in un
mondo in cui vanno maturandosi mutamenti scientifico-tecnologici e filosofici
dei quali è difficile valutare le conseguenze estreme sul piano della società e
del territorio (...) Quanto va sotto il nome di terza rivoluzione tecnologica
non è (...) una semplice trasformazione di macchine, come la precedente, bensì
un'evoluzione del pensiero umano, esprimibile sì in termini di maggior
rendimento, ma, soprattutto, in termini di diversa penetrazione cognitiva (...)
Riusciamo, così ad affrontare nuove razionalità, differenti rispetto a quella
classica, fondate sul carattere della complessità: razionalità per le quali il disordine
sembra prevalere sull'ordine, l'ambiguo sul chiaro (...) lo specifico
sull'universale"[5].
L'accentuazione
del carattere totalizzante della complessità in epoca di network society pone
il problema di una sua poderosa alterità rispetto ai periodi precedenti, al
punto tale da indurre a rivedere con molta probabilità le stesse basi
epistemologiche dei background cognitivi di era moderna la information age,
pretende il diritto di verità. Nozioni altrettanto esegetiche, tuttavia,
emergono anche in ambiti concettualmente evoluti delle tecnologie della
comunicazione e della rappresentazione. Questa rete di legami, che nel tempo si
infittisce sempre più, costituisce una delle ragioni della crescente
complessità della realtà in cui siamo immersi.
Dunque se si rappresenta un paesaggio,
qualsiasi siano i mezzi o le tecnologie adoperate, bisogna ricordare sempre di
andare oltre i limiti della rappresentazione, ovvero allontanandosi: accedere
allo spazio spogliato dalla sua enfasi, apparizione scarna di una scena quale
essa realmente è: questa la parola d'ordine della rappresentazione della realtà
e insieme la definizione della sua comunicazione.
Questa apertura del campo
dell'immagine, coincide con un allontanamento del punto di vista: l'orizzonte diventa
il lointain, lo sfondo, l'infinito e
la rappresentazione della realtà del
paesaggio si avvicina alla poetica dello spazio. Inoltre, gli artifici
dell’immagine virtuale modificano il
processo percettivo connotando il paesaggio rappresentato di valori e contenuti
che modificano radicalmente il luogo rappresentato: il rallenty o al contrario lo scorrimento veloce di alcune immagini,
come il traffico in una città, lo scorrimento delle nuvole, il sorgere e il
tramonto degli sole e degli astri o lo sbocciare dei fiori.
L'ampliamento dei
campi dell'immagine, intesi come abolizione della delimitazione, hanno
soprattutto lo scopo di creare un'illusione percettiva: privata dei suoi
limiti, l’immagine (la finzione) viene confusa con la realtà e il gioco della rappresentazione
raggiunge i suoi effetti parossistici. Un esempio di tutto ciò è dato dal
concetto di panorama nella rappresentazione del paesaggio. Il panorama è una
rappresentazione spettacolare del paesaggio che invece di raffigurare il luogo
vuol creare l'illusione della sua presenza fisica: «Nel loro tentativo di produrre, nella natura rappresentata,
trasformazioni fedeli fino all'illusione, i panorami rinviano in anticipo,
oltre la fotografia, al film e al sonoro»[6].
La
collettività, di per sé, non esiste più se non in quanto massa informe nelle
mani di chi è in grado di condurre il famoso flusso di informazioni nella
direzione che più gli va a genio, e il tanto bramato intellettuale, che
dovrebbe essere uno scoglio di contenimento di questo tsunami, ha in mano pochi
strumenti e li usa in maniera disarticolata e inefficace, assemblando pezzi di
discorsi altrui nel tentativo di formare un'opinione che non sia nemmeno troppo
non-condivisibile, altrimenti—è ovvio—su Internet cade nel vuoto .Questo è ciò che
accade ormai comunemente con tutte le immagini: la realtà rappresentata,
diventa illusoriamente la realtà tout cour e si rende complice di un grande
inganno.
Da, Franco Cuomo, Confessioni, di prossima pubblicazione
[1]
Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi , Torino, 1981; è anche ciò che Barthes chiama il «disordine
costitutivo dell'immagine».
[2] Cristina De
Vecchi , La rappresentazione del paesaggio , Spazio filosofico , Collana di
libri in linea "Il dodecaedro"
[3]
Gilles Deleuze, L'image-mouvement. Cinéma 1, Les éditions de Minuit (coll. «
Critique »), Paris, 1983, 298 p. ;
Gilles
Deleuze, L'image-temps. Cinéma 2, Les éditions de Minuit (coll. « Critique »), Paris, 1985, 378
p.
[4]
Ylia Prigogine e I.
Stengers, La nuova alleanza, Torino 1981; G. Bocchi e M. Cerruti (a cura di),
La sfida della complessità, Milano 1988.
[5] Ciribini G., La normativa
tecnica di fronte alle problematiche attuali,, in Edilizia scolastica e
culturale, n. 4, 1987
[6] Roland Barthes, La camera
chiara, Einaudi , Torino, 1981
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