martedì 23 giugno 2015

Il recinto della vanità. Racconto

lady Goldenberg di franco cuomo



C’è sempre un epilogo per queste storie, per questi racconti e quest’ultimo ne racchiude il senso, la verità sapete qual' è? La verità è che non siamo ancora stati salvati. Si, siamo stati addomesticati tutti quanti e oggi viviamo tutti in una specie di recinto, di parco protetto e custodito. Siamo guardati a vista sempre ogni giorno, tutti i giorni, C’è chi si illude di volersi bene e di auto gratificarsi, chi insegue il sogno di essere sempre giovane e scattante anche a settanta anni con piccole punturine e parrucchini vari, chi insegue progetti di lavoro, ma l’unica realtà è che siamo tutti dentro un recinto che non è neanche più un hortus conclusus. Tutti su un treno in corsa, tra stazioni diverse, si sale si scende, non ci si guarda in faccia, ci si urta, si impreca l’uno contro l’altro e il treno sferraglia rumoroso in un recinto chiuso: abbiamo tutti l’illusione di andare da qualche parte ma in realtà nessuno va da nessuna parte. Se per molti solo un dio poteva salvarci io, guardando tutti i visi che ho incontrato in questi anni ne ho dedotto che non siamo ancora stati salvati, ma che, forse non è più neanche il caso di attendere, perché non c’è nessuna salvezza tranne l’illusione di coltivare la propria vanità. Si chiamava Domenico, lo trovavo nel treno già seduto al suo posto, minuto, femmineo nei modi, un libro tra le mani tutte le mattine. Conoscevo il suo nome perché una mattina una signora lo aveva salutato chiamandolo: ecco, quell’uomo femmineo coltivava compiaciuto le sue vanità: era talmente preso di sé che pensava di essere superiore a tutti quelli che gli stavano intorno, ma, nello stesso tempo, dai discorsi che gli sentii fare con la signora – una biondona molto cheap- ostentava una finta umiltà edificante e un finto altruismo e una finta bontà che lui praticava compiaciuto e con compunzione: ecco, Domenico si compiaceva di se stesso metodicamente. Tutte le mattine lui dava il buon giorno a tutti regalando sorrisi fioriti e buoni propositi, ma in realtà era solo a lui che pensava. Bastava un nonnulla in quel vagone sgangherato per smascherare quel minuetto che lui inscenava tutte le mattine. Come una mattina che aggredì violentemente un signore un po’ goffo che inavvertitamente aveva fatto gocciolare il suo ombrello sulle sue scarpe, o un’altra mattina con fare disgustato aveva sbattuto in faccia ad una poverina un : “ signora! Ma lei non si lava e che diamine! Si vendono tanti deodoranti e profumi, potrebbe pure usarne qualcuno!”. La malcapitata, che poverina, io vedevo tutte le mattine, come tanti su quel treno, lo guardò con commiserazione, evidenziando il pensiero come in un fumetto sulla sua testa che conteneva queste parole “ ci tocca pure questo al mattino, non basta tutto il resto” , cambiò posto e andò a dormicchiare su un altro sedile.  In realtà Domenico odiava il mondo e tutti quelli che gli stavano intorno. Le sue abitudini, cresciute nel segreto coltivavano una oscura avversione per l’umanità che lo circondava a meno che non si trattasse di un bel giovanotto: se ne adocchiava uno erano tutte mossettine e gentilezze e ammiccamenti, trascurando anche la biondona che, manifestava tutto il suo disappunto serrando le labbra in una smorfia che come una ferita gli tagliava il viso . Lui era un costruttore identitario di egoismo puro. Tutte le mattine, tranne il sabato, con la signora bionda tutto il mondo era passato al setaccio tra raccapriccianti luoghi comuni e leziosismi stomachevoli. Erano insegnanti entrambi. Una mattina, con discrezione, ma in cuor mio non ne potevo più di ascoltare quelle scemenze sull’amore per tutti gli essere viventi, sull’azzurro del cielo, e su quanto fosse bella la penisola sorrentina e i suoi scorci, azzardai un intervento del tipo: “ mi scusi, sono sinceramente colpito dalle cose che lei dice con tanta certezza, ma non le viene qualche volta il dubbio che forse il mare non è sempre azzurro e il cielo non è sempre blu, che la penisola sorrentina sta affogando nel cemento, che amare tutti gli essere viventi incondizionatamente è una enunciazione di principio ma che riesce difficile da realizzare e dunque non la realizza nessuno a parte di non essere San Francesco o Gesù ( cha amava solo l’umanità, ma non l’animalità) o Budda( che amava di più l’animalità e meno l’umanità)  ?” La biondona che era con lui, si girò di scatto, con fare stizzito, quasi a dire, “ma come si permette? Ma non si rende conto di quello che ha detto? ” . Lui, con uno sguardo che sembrò lanciasse saette, girandosi lentamente sul sedile, a gambe strette e piedi uniti, accennando ad un sorriso finto e contenendo tutta la rabbia che avrebbe voluto fare esplodere contro di me che avevo osato distruggergli tutti gli oggetti della sua vanità disse, come se stesse distillando  perle di saggezza: “Piacere a tutti, del resto, significherebbe non piacere a nessuno. Ma la cosa fondamentale è piacere a se stessi, volersi bene”. Questa frase, che forse sarebbe stata credibile se fosse stata pronunciata con un altro tono evidenziò tutta la vistosa stonatura di quell’uomo dai modi femminei e tutta la sua rabbia dall’esser stato contraddetto da me, in fondo chi ero io se non un tizio qualsiasi che viaggiava su un treno sgangherato come lui, ma soprattutto fece venir fuori la sua vanità e il suo egoismo praticato con metodo: lui tutte le mattine voleva solo piacere a se stesso e voleva bene solo a se stesso.  

La redenzione informale, ovvero, quando la filosofia diventa compostaggio

Giovanni Cuter - Furore e Redenzione
Diciamo che non mi va più di occuparmi di futilità, diciamo anche che non vale la pena spendere le proprie energie quando nessuno ti ascolta o quando, alle spalle ti parlottano dietro e allora, coltivo i miei amori di sempre: filosofia, letteratura, arte, mi danno molto di più e mi aiutano a volermi un po’ più bene che non è cosa da poco.
Dunque:  “ come ci insegna Adorno, anche la filosofia contemporanea può invecchiare. Le opere filosofiche più significative, dopo la morte degli autori, attraversano uno stadio intermedio in cui non sono né attuali, né canoniche e fluttuano in una dissoluzione spettrale. I temi che una volta si raccoglievano sotto un nome proprio, ora si svincolano da questo rappresentante, si decompongono e attraversano uno stadio che è simile a quello del compostaggio. Cominciano così a moltiplicarsi radicalizzazioni arbitrarie di singoli temi e nuove diverse combinazioni dei singoli elementi scomposti, e il resto sprofonda in un passato irrecuperabile. Soltanto nell’attimo della sua dissoluzione sembra mostrarsi veramente il modo in cui è costruita una sintesi filosofica. Questa analisi, che procede attraverso lo smontaggio, funziona anche se l’autore, come ad esempio Adorno, tenta di sottrarre il proprio testo a un tale destino, professandosi antisistematico (come oggi fanno un poco tutti n.d.r.). La decomposizione difatti non riguarda soltanto i sistemi propriamente detti, ma anche il pensiero informale, che riflette la sua struttura allentata, nel costituirsi non come sistema, ma come un’ écriture ” .

Questo passo di Peter Sloterdijk è tratto dal suo testo “ Non siamo stati ancora salvati. Saggi dopo Heidegger, pubblicato per Bompiani nel 2004 tradotto da Anna Calligaris e Stefano Crosare, citato a pag. 185,con una bella prefazione di Pier Aldo Rovatti, il titolo originale è” Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger”. Dunque la filosofia  invecchia ed è caduca come tutto, Sloterdijk, però ci dice pure come essa continua la sua missione, attraverso la trasformazione dei suoi elementi costitutivi, fino ad una “redenzione informale”. “ Così accadde dopo Hegel, dopo Husserl,[…] dopo Heidegger”, lo stesso Theodor Adorno, e con lui parte della Scuola di Francoforte , che voleva ritenersi immune da questa decomposizione, è stato forse il primo ad essere stato dimenticato con gli altri appartenenti della famosa scuola che tanto peso ebbe per le generazioni di studenti negli anni ‘ 60 e ’70. Per Adorno però, proprio perché fortemente contestualizzato, la dissoluzione della sintesi non avviene per il contrasto con i suoi successori, ma per “perdita di pressione” storica. Se l’aver coniugato Hedegger, Freud e Marx insieme con Hegel e Nietzsche era già molto bizzaro e improbabile, ora, dopo un quarto di secolo dalla morte di Adorno tutta quella riflessione appare addirittura improponibile. Cosa reste allora di quel pensiero decomposto? Cosa resta della grande rappresentazione della caduta della metafisica raccontata nella Dialettica negativa e poi insieme a Max Horchkeimer  nella Teoria Critica ? Rimangono i resti trasformati di una teoria dell’arte, rimane solo l’opera d’arte e le sue possibili interpretazioni filosofiche come unico rifugio contro gli eccessi della metafisica, ma rimane anche – adattata alla odierna reificazione dei corpi e delle coscienze  contemporanei – la lettura decostruita del suo capolavoro assoluto che, abbandonando il rigore della filosofia abbraccia l’ambigua doppiezza della letteratura: I Minima Moralia.  

Franco Cuomo

lunedì 22 giugno 2015

I luoghi dell'apparizione




L'analitica del sublime in Kant, al di la di una critica del gusto, tenta una ridefinizione dei luoghi dell'apparizione. Così in questa foto: La piazza del Plebiscito 1953. Una giovane donna accovacciata accanto ad un bambino che piange. La giovane donna è elegante in un tailleur scuro (la foto è in bianco e nero, seppia ad essere precisi), sicuramente blu, ha capelli nerissimi raccolti, un sorriso con rossetto e una spilla d’argento sul bavero della giacca, sandaletti nabuck. Il bambino ha un completino – nella foggia di allora – calzoncini corti bianchi, scarpe di camoscio bianche e calzini, giacchino corto azzurro: guarda da qualche parte o sta per piangere spaventato, mentre un coppo di mangime per colombi si è rovesciato attirando attorno a sé i famelici volatili: il bambino ha due anni. Capelli biondissimi e occhi azzurri. Alle spalle la chiesa di S. Francesco di Paola che non appare ripresa e pochi passanti sullo sfondo ignari, mentre forse spaventato si tiene alla mamma nonostante la mamma gli stringa la mano.Ecco, il giudizio estetico attiene alla descrizione e la descrizione è una critica che va al di là della critica stessa, elaborando le condizioni della critica del giudizio. Questo è il giudizio estetico, il giudizio estetico sembra essere per Kant il giudizio per eccellenza. Questo giudizio è tale perché esso va al di là dell'oggetto stesso che descrive. Il pensiero è suscettibile di affettività e il giudizio estetico si pronuncia sullo stato del pensiero nel piacere o nel dispiacere entrambi gli stati fanno si che il pensiero elabori il giudizio di gusto.
L'immaginazione è la potenza di una rappresentazione, qualunque essa sia.L'estetica kantiana si mantiene più distante dall'estetica di Baumgarten. E' in questa distanza che il sublime arriva in una euforia che ci presenta un altro sentimento estetico di natura eterogenea rispetto a quello del bello. Può essere allora che il sublime sia un esempio perfetto del differente e la differenza è tutta nella capacità di pensare, di rappresentare e di andare oltre ciò che si rappresenta. Nel sublime accade che la ragione presenti un assoluto, l'immaginazione si sforza di trascendere l'oggetto rappresentato, ma non riesce a descriverlo, perché la ragione che determina l'immaginazione è - per Kant - limitata. Essa non è l'immaginazione romantica, non è la fantasia: l'immaginazione può comprendere, abbracciare, descrivere, ma rimane muta davanti al sublime.

sabato 20 giugno 2015

Perché dovrei sentirmi europeo?


Forse sarebbe necessario ridare importanza allo studio della storia nelle nostra scuola defunta, invece la storia è stata quasi bandita e là dove si insegna la si insegna malissimo: bisognerebbe ricordare gli ultimi 150 o duecento anni della storia europea, bisognerebbe riandare a quei capitoli che si intitolavano “ l’età degli imperialismi” ovvero la tendenza degli stati europei ad una politica di conquiste in Africa,Medio oriente, Asia e America latina passata anche sotto il nome di  colonialismo tra il 1870 e il 1914 che  consisté nell'azione da parte dei governi europei Francia e gran Bretagna in testa, ad imporre la propria egemonia su altri paesi per sfruttarli dal punto di vista economico assumendone il pieno controllo monopolistico delle fonti energetiche ed esportazione soprattutto di capitali. Oppure, se si volesse andare più indietro alle sanguinose guerre di religione, alla notte di San Bartolomeo  il nome con il quale è passata alla storia la strage compiuta nella notte tra il 23 ed il 24 agosto 1572 dalla fazione cattolica ai danni degli ugonotti a Parigi in un clima di rivincita indotto dalla battaglia di Lepanto e dal crescente prestigio della Spagna che perpetrava un vero e proprio genocidio nella meso America e nell’America latina. Bisognerebbe spiegare agli studenti tutte le bugie che tutti i Tg – gestiti da raccomandati ignoranti che si fingono giornalisti, soprattutto belle signore – ad ogni ora del giorno propinano ad una massa sempre più inerte e sempre più ignorante di cittadini, che credono che noi siamo assediati da delinquenti e da barbari che vogliono compromettere la nostra grande civiltà europea, che le bandiere nere dell’IS, si infiltrano tra le schiere dei dannati della terra, per usare una espressione di Franz Fanon, che i giornalisti ignoranti neanche sanno chi è, che scappano da territori dilaniati dia violenti conflitti e da povertà prodotte, proprio da noi, i grandi paesi civili dell’Europa. Bisognerebbe spiegare agli studenti, che per esempio le case d’asta statunitensi ed europee, battono pezzi che arrivano direttamente dal medio oriente, che l’IS, che non è uno stato ma una banda di delinquenti che spacciano di tutto: dalla droga alle opere d’arte che non è vero che distruggono, ma che invece vendono a signori europei molto distinti ricavandone soldi per fare dei video clip in studios simil Holliwood. Ecco chi sono gli europei! Quello che sta succedendo a Ventimiglia è la distruzione planetaria del diritto all’umanità e non a caso sta succedendo in Europa e non a caso è la civilissima Francia che non vuole neanche che si facciano riprese. E allora mi chiedo: Perché dovrei sentirmi europeo? Perché continuiamo con l'ipocrita farsa di una identità europea? Quello che sta avvenendo sul confine francese è la quintessenza dell'anima vera dei paesi che compongono l'Europa: altro che civiltà dell'illuminismo , altro che tolleranza. Vogliamo ricordare che l'Europa ha dato origine ai colonialismi e agli imperialismi? Vogliamo ricordare che nel cuore dell'Europa è nato il nazismo? Vogliamo ricordare i forni e i campi di sterminio e i pogrom? E la prima e la seconda guarda mondiale? Vogliamo ricordare la dittatura finanziaria del' euro, un'altra menzogna propinata da un capitalismo finanziario che sta truffando la povera gente? E allora smascheriamo l'ipocrisia - ancora una volta coloniale - della Francia, della Germania, della Spagna . Non c'è bisogno di ricordare politiche di sterminio nelle colonie di questi paesi .Quello che sta accadendo a Ventimiglia è la catastrofe della ipocrisia europea che stavolta agisce senza maschera, quello che sta accadendo a Ventimiglia è la riprova che i francesi si sentono francesi, i tedeschi si sentono tedeschi, i danesi si sentono danesi gli inglesi non ne parliamo, ma nessuno si sente né vuole sentirsi europeo: su questa tragedia, bisognerebbe avere il coraggio di dire che è naufragata un’idea balzana, imposta anche questa, quella degli Stati Uniti d’Europa. Anche qui, senza che nessuno spiegasse alle gente e agli studenti che la storia non la studiano più: che mentre quelli d’America erano Stati federali nati da un sogno comune di indipendenza dalla Gran Bretagna e dunque parlavano una lingua comune e avevano tradizioni religiose e culturali comuni, gli stati europei sono nati come stati nazionali dalla dissoluzione di due imperi: quello romano prima e quello carolingio poi. Che la Francia, la Spagna, la Germania, ecc ecc, continuano a parlare lingue diverse ed avere letterature nazionali diverse e tradizioni diverse  . Tutto questo sta venendo fuori in questa tragedia umana, in questo violento rifiuto di accoglienza di popolazioni affamate dalle nostre politiche di civiltà. Oggi quello che sta accadendo non può più mascherare l'orrore della disumanità e del razzismo persecutorio contro chi è diverso da noi, sempre pronto a riapparire in Europa. E dunque di fronte a tutto ciò mi chiedo: perché dovrei sentirmi europeo?

venerdì 19 giugno 2015

Ma la rappresentazione del paesaggio nelle foto o nei video dice sempre la verità?








E’ l’immagine che determina la realtà, la sua rappresentazione pittorica prima e fotografica o cinematografica virtuale, poi o, viceversa, il paesaggio è già nella sua realtà naturale fondamentalmente come natura antropica organizzata attraverso segni?
Il problema dell’immagine e dei suoi rapporti con la realtà e la comunicazione delle immagini, ecco a questo ho pensato costantemente per anni, quando guardavo un quadro o una fotografia, rimanendo spesso affascinato dalle immagini e scambiandole per la realtà: ormai questa fascinazione sembra essere diventa la condizione alla quale sottostanno tutti. 

Ne erano consapevoli Jacques Lartigue, Henri Cartier-Bresson, Richard Avedon, Annie Leibovitz, Helmut Newton, solo per citare alcuni grandi, ne sono tuttora consapevoli e giocano su questo inganno: David Lachepelle, Pierre e Gilles, Terry Richardson, Cheiko Leidmann per citarne altri. Oggi tutti sono vittime di questa fascinazione.

Anche la realtà del paesaggio, che non è più – ma non lo è mai stato – immediatamente naturale, ma sempre totalmente antropico, obbedisce a queste relazioni comunicative. Il linguaggio deìttico della fotografia fa sì che in essa  il paesaggio si identifichi sempre con la rappresentazione del luogo. Deìttico (dal greco deíknymi, "indico, mostro"): ed è questo elemento linguistico che viene usato per indicare qualcosa o qualcuno senza nominarlo espressamente ma solo alludendo ad esso attraverso la sua rappresentazione e che, perciò, può essere decifrato da chi guarda soltanto sulla base della conoscenza dei fattori relativi alla situazione comunicativa. Per quanto, tale identificazione (una tautologia secondo Roland Barthes), finisca per realizzarsi di fatto solo nell'immagine fotografica, non si può parlare di rappresentazione documentaria della realtà del  paesaggio senza il riferimento, più o meno preciso, a un luogo determinato[1] .

 La rappresentazione della realtà del luogo non solo lo delimita ma, costituendone materialmente l’iconografia, ne inaugura  anche la poetica[2]. Gilles Deleuze nella sua indagine sull’immagine-tempo avviluppa in un rincorrersi continuo lo spazio del reale  e quello dell’immaginario, prodotto dalla rappresentazione: "Abbiamo visto come, nei percorsi più larghi, percezione e ricordo, reale e immaginario, fisico e mentale o piuttosto le loro immagini si rincorressero senza posa, correndo l’una dietro l’altra e rinviando l’una all’altra attorno a un punto di indiscernibilità. Ma è proprio il cerchio più piccolo che costituisce questo punto di indiscernibilità, cioè la coalescenza tra immagine attuale e immagine virtuale, l’immagine a due facce, attuale e virtuale insieme[3].

E’ solo con i romantici, che il paesaggio assume valore simbolico e di cui il pittore tedesco Friedrich è l'interprete più conosciuto. L’iconografia di quel tipo di rappresentazione apre alla poetica della realtà del paesaggio, intesa come  possibile interpretazione della realtà tout court. Con i romantici si apre l’epoca del vedutismo e la costruzione enfatica dei luoghi, che, diventano altro da ciò che spesso realmente sono. Certamente anche la tradizione descrittiva dell'arte nordica risponde alla parola d'ordine che è quella di mostrare, ma anche di trascendere il reale, ma proprio qui si colloca la differenza che abbiamo già sottolineato, e che avrà conseguenze decisive, tra l'indicazione enfatica di un soggetto sommerso dall'emozione del paesaggio e la rappresentazione  pretesa oggettiva dell’immagine fotografica, che si propone anche come via d'accesso alla conoscenza del mondo fisico e della  realtà antropica del paesaggio e non solo di questo. Dunque, questa mia confessione va nella direzione di uno smascheramento  del potere ipnotico della rappresentazione per immagini.

Questo tema, essenzialmente visivo, pone la discussione al di là della bipolarità, “realtà-immagine”, "paesaggio- immagine" o "paesaggio- ambiente" e trova la sua collocazione in relazione alle tematiche filosofiche della percezione e dell'immaginazione, pur non rinunciando a considerare i problemi storici che questi argomenti portano con sé. Da questo punto di vista, infatti, è la fotografia, ma anche il cinema e  la televisione, e ultima arrivata, la realtà virtuale con la loro  funzione documentaria, si impongono come i veri  protagonisti sia della storia della rappresentazione della realtà sia della mutata concezione del  paesaggio, sia della illustrazione di quella e di questo. Infine, la grande rivoluzione che la riproducibilità tecnica porta con sé, ripropone le riflessioni sulla percezione e sull'immaginazione visiva nei termini di una "complessità"[4] nella quale i fattori storici e sociali del mutamento rivendicano i propri diritti, ovvero: quando comin ciamo a parlare di nuovo di cose concrete? Ogni epoca, in cui possano riconoscersi decise alterità di logiche e filosofie produttive, palesa  i propri regimi di complessità.

 Da sempre, soprattutto la comunicazione - con le sue peculiarità - ne rappresenta la testimonianza tangibile e ne è la memoria, e nella crisi dei sistemi sociali nella quale oggi drammaticamente e tristemente solo l’economia sembra dettar legge, ne accoglie le connotazioni, ne accetta le sfide, e definisce i suoi caratteri. In un breve saggio del 1987, si osservava: “viviamo oggi (...) in un mondo in cui vanno maturandosi mutamenti scientifico-tecnologici e filosofici dei quali è difficile valutare le conseguenze estreme sul piano della società e del territorio (...) Quanto va sotto il nome di terza rivoluzione tecnologica non è (...) una semplice trasformazione di macchine, come la precedente, bensì un'evoluzione del pensiero umano, esprimibile sì in termini di maggior rendimento, ma, soprattutto, in termini di diversa penetrazione cognitiva (...) Riusciamo, così ad affrontare nuove razionalità, differenti rispetto a quella classica, fondate sul carattere della complessità: razionalità per le quali il disordine sembra prevalere sull'ordine, l'ambiguo sul chiaro (...) lo specifico sull'universale"[5].

L'accentuazione del carattere totalizzante della complessità in epoca di network society pone il problema di una sua poderosa alterità rispetto ai periodi precedenti, al punto tale da indurre a rivedere con molta probabilità le stesse basi epistemologiche dei background cognitivi di era moderna la information age, pretende il diritto di verità. Nozioni altrettanto esegetiche, tuttavia, emergono anche in ambiti concettualmente evoluti delle tecnologie della comunicazione e della rappresentazione. Questa rete di legami, che nel tempo si infittisce sempre più, costituisce una delle ragioni della crescente complessità della realtà in cui siamo immersi.

 Dunque se si rappresenta un paesaggio, qualsiasi siano i mezzi o le tecnologie adoperate, bisogna ricordare sempre di andare oltre i limiti della rappresentazione, ovvero allontanandosi: accedere allo spazio spogliato dalla sua enfasi, apparizione scarna di una scena quale essa realmente è: questa la parola d'ordine della rappresentazione della realtà e insieme la definizione della sua comunicazione.

 Questa apertura del campo dell'immagine, coincide con un allontanamento del punto di vista: l'orizzonte diventa il lointain, lo sfondo, l'infinito e la rappresentazione della realtà del  paesaggio si avvicina alla poetica dello spazio. Inoltre, gli artifici dell’immagine virtuale  modificano il processo percettivo connotando il paesaggio rappresentato di valori e contenuti che modificano radicalmente il luogo rappresentato: il rallenty o al contrario lo scorrimento veloce di alcune immagini, come il traffico in una città, lo scorrimento delle nuvole, il sorgere e il tramonto degli sole e degli astri o lo sbocciare dei fiori.

 L'ampliamento dei campi dell'immagine, intesi come abolizione della delimitazione, hanno soprattutto lo scopo di creare un'illusione percettiva: privata dei suoi limiti, l’immagine (la finzione) viene confusa con la realtà e il gioco della rappresentazione raggiunge i suoi effetti parossistici. Un esempio di tutto ciò è dato dal concetto di panorama nella rappresentazione del paesaggio. Il panorama è una rappresentazione spettacolare del paesaggio che invece di raffigurare il luogo vuol creare l'illusione della sua presenza fisica: «Nel loro tentativo di produrre, nella natura rappresentata, trasformazioni fedeli fino all'illusione, i panorami rinviano in anticipo, oltre la fotografia, al film e al sonoro»[6]

La collettività, di per sé, non esiste più se non in quanto massa informe nelle mani di chi è in grado di condurre il famoso flusso di informazioni nella direzione che più gli va a genio, e il tanto bramato intellettuale, che dovrebbe essere uno scoglio di contenimento di questo tsunami, ha in mano pochi strumenti e li usa in maniera disarticolata e inefficace, assemblando pezzi di discorsi altrui nel tentativo di formare un'opinione che non sia nemmeno troppo non-condivisibile, altrimenti—è ovvio—su Internet cade nel vuoto .Questo è ciò che accade ormai comunemente con tutte le immagini: la realtà rappresentata, diventa illusoriamente la realtà tout cour e si rende complice di un grande inganno.


Da, Franco Cuomo, Confessioni, di prossima pubblicazione





[1]   Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi , Torino, 1981;  è anche ciò che Barthes chiama il «disordine costitutivo dell'immagine».
[2] Cristina De Vecchi , La rappresentazione del paesaggio , Spazio filosofico , Collana di libri in linea "Il dodecaedro"
[3] Gilles Deleuze, L'image-mouvement. Cinéma 1, Les éditions de Minuit (coll. « Critique »), Paris, 1983, 298 p. ;
Gilles Deleuze, L'image-temps. Cinéma 2, Les éditions de Minuit (coll. « Critique »), Paris, 1985, 378 p.
[4] Ylia Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza, Torino 1981; G. Bocchi e M. Cerruti (a cura di), La sfida della complessità, Milano 1988.
[5] Ciribini G., La normativa tecnica di fronte alle problematiche attuali,, in Edilizia scolastica e culturale, n. 4, 1987
[6] Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi , Torino, 1981

martedì 16 giugno 2015

Un ricordo: Picasso all’Hotel Salé, Parigi, 3/1/1986

autoritratto 1901

autoritratto 1906






Picasso all’Hotel Salé[1]
Un ricordo

Il Musée Picasso è una galleria pubblica d'arte, ospitata nel palazzo Salé, che si trova in Francia a Parigi nel quartiere Le Marais, all'indirizzo rue de Thorigny, 5. Il Museo Picasso fu aperto per la prima volta nel dicembre millenovecentottantacinque, io lo visitai in una gelida giornata di gennaio del millenovecentottantasei, per la precisione, il tre gennaio millenovecentottantasei. Facemmo la fila con gli ombrelli aperti e intabarrati, mentre cadeva un leggero nevischio e lastre di ghiaccio brillavano e riflettevano un cielo turchese terso. Una Parigi magnifica per un inverno che fu tra i più freddi anche in Italia. Con me avevo un quaderno dove appuntai tutto quello che segue.
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“ Eccomi dunque da Picasso invitato ad una visita intima anche se la folla è tanta per ogni sala e intorno ad ogni opera. Posso ben dire che questa è veramente la dimora di Picasso. A parte un certo numero di opere pittoriche che egli amava collezionare e che spaziano da Matisse  a Braque e di un certo numero di oggetti di cui amava circondarsi, si possono ammirare nelle sale la successione delle sue opere presentate in ordine cronologico tranne qualche eccezione.

Splendide e piene di energia le tele degli studi preparatori a “ Les demoiselles d’Avignon”, con la loro carica di movimento e il loro desiderio di testimoniare il dinamismo delle forme viventi; le diagonali antagoniste attivano le superfici delle tele che spingono l’occhio ad esplorare una nozione di rilievo che si spinge fuori dal quadro e non verso i punti di fuga della prospettiva classica. Trapezi, triangoli e losanghe che si contendono l’equilibrio con le masse ovoidali.
les demoiselles d'Avignon
Più avanti, l’Autoritratto del 1901: tutto in quest’opera è sacrificato al viso e in quella faccia livida ogni espressione rimanda allo sguardo ossessionato che ci ossessiona, alla linea rosso pallido della bocca sensuale e malinconica. Invece, nell’Autoritratto del 1906, l’artista si presenta si, nella stessa posizione in rapporto alla topografia della tela, ma al mantello nero che lo protegge dai morsi del freddo del fondo blu, si oppone una tenera tinta di tenera carne del corpo nudo del bel collo taurino e dei bei polsi gonfi. Così, assorbita dal tutto, la faccia diventa una maschera sensibile e suscettibile a trasformarsi in spazio architettonico.  

Tutto mi appare in perfetta sintonia con la riattivazione culturale del moderno contro tutte le logiche “post” così forti in questo momento ( 1986 n.d.r.) in Francia e che trova la sua giustificazione intrinseca che va contro ogni criterio di attualità. L’arte moderna comporta sempre un criterio di opposizione tra romanticismo e classicismo, tra ciò che possiamo chiamare in sintesi: le forze nordiche e le forme mediterranee che interagiscono in Picasso. Se è vero che questa complessa opera che mi si presenta mentre attraverso il labirinto varca tutte le frontiere e si apre alle correnti “barbare” ed extra europee, è pur vero che si certifica anche come tenacemente mediterranea, per la nascita, il temperamento, la località dei soggiorni, le ossessioni mitiche e la sintassi imperiosa del suo autore.

Nei limiti prestabiliti, la raccolta dell’Hotel Salé, tocca quasi tutti i generi: composizioni, ritratti, paesaggi, nudi, nature morte, interni, mitologie, le diverse epoche e i luoghi dove trovarono la loro espressione le tecniche multiple: pittura a olio, tempera, pastello, disegna a tratto, incisione, ceramica, scultura, offrendo così un approccio globale e quanto mai significativo col pittore di Malaga. Ma la vera ascesa, l’alchimia delle forme, in Picasso comincia nel 1911 con un ritorno di forza delle linee orizzontali e verticali, con la scelta dei neri e dei grigi, del bianco e del giallo ocra: si struttura così uno spazio geometrico e cristallino che si impone attraverso l’austerità del colore. Ad eccezione di alcune opere, tutta l’esposizione proviene deliberatamente dalle tre ricche riserve parigine: Il Museo Nazionale d’Arte Moderna, la collezione Walter Guillaume[2] e l’embrione del Museo Picasso che ora finalmente ha trovato1ui la sua collocazione.

La poetica cubista che si poteva leggere nelle forme primitive del soggiorno nella cittadina di Gosol  in catalogna instaura un nuovo classicismo metaforico e concettuale. La cristallizzazione si opera in luoghi tipicamente mediterranei ed assolati: Horta, Cadaqués, in Catalogna, Céret nel Roussillon, Avignone in Provenza, con le sue “ Demoiselles”. Vi è coincidenza, o meglio equivalenza possibile fra le strutture del mondo interiore e i ritmi cromatici della superficie dipinta perché esiste ed è il fondamento dell’ordine picassiano, una metrica universale della forma che scandisce gli intervalli, stabilendo un legame strettissimo tra lo spazio e il suo contenuto.

L’ortodossia cubista proibiva i viaggi e il ritorno al passato; recandosi in Italia, nella primavera del 1917, cedendo alle insistenze di Cocteau, Picasso rischiava l’apostasia, tanto più che il pretesto fu la preparazione  alle scenografie e ai costumi rivoluzionarie dei balletti russi , tutto questo quindi fu visto dai suoi amici come  un sacrilegio. Gli effetti del viaggio italiano, però si ripercuotono sulla seconda fase classica, chiamata anche “ ingresca” ( riferimento a Ingres n.d.r.) o antica che si protrae in pittura fino al 1925. Questa fase è rappresentata all’Hotel Salé dai suo maggiori esemplari: composizioni monumentali che mozzano il fiato per la loro potenza evocativa ed espressiva: “ la Donna seduta”, “ la Grande bagnante”, “ la Sorgente”. Nudi giganteschi con i loro panneggi segreti eppoi ancora: “ Il flauto di Pan”, capolavoro incontrastato di quel periodo, “ la Lettura della lettera”, misterioso quanto ambiguo omaggio di Picasso a Cocteau e le tre figure di “Donne alla fontana”, eseguite a Fontainbleau, accanto alla foresta, nel quale rivivono le ninfe e il castello affrescato dai maestri italiani.
il flauto di pan
Più avanti, scendendo le piccole scale che accedono in un atrio coperto dove la luce fredda del gennaio parigino filtra pallidamente, si incontra “ La Tauromachia” che sembra riassumere tutto un ciclo e regge il confronto con il Durer della “ Melancholia”. Sono di fronte a una serie di prestigiose acqueforti, bulino, acquetinte, eppoi ancora: penna, inchiostro di china, mina di piombo, tempera, dieci prove di studio incise per Vollard.
Nei sotterranei Picasso scultore: “ la Donna con l’arancia”, guardiana del frutto solare del “giardino delle Esperidi” e “ L’uomo con l’agnello” e ancora “ La donna incinta” e” La capra”, forti nella forma elementare della propria natura e poi ceramiche policrome, vasi, coppe, anfore, piatti.
Ho omesso per regioni di tempo e di spazio, il periodo che va dagli anni ‘30 agli anni’50 e anche quello successivo, ma posso certamente dire che tutto Picasso è qui all’Hotel Salé col suo senso di vertigine forte che non si lascia né riassumere, né raccontare, ma che orienta fortemente verso scelte suggestive l’emozione di chi scrive.

Franco Cuomo
Hotel Salé, Parigi, 3/1/1986






[1] Riaperto il 25 ottobre 2014 dopo cinque anni di chiusura. I lavori di ammodernamento ed espansione sono stati diretti dall’architetto francese Jean-François Bodin.
[2] La Collezione Walter-Guillaume è un insieme unico che illustra la creazione artistica dei primi decenni del XX secolo. Paul Guillaume è una figura degli ambienti artistici e letterari della Parigi degli anni 20 di cui ne è testimone e mecenate. Amico di Guillaume Apollinaire e di Max Jacob, sostiene Picasso, Soutine, Derain o Marie Laurencin e si interessa ai loro predecessori, soprattutto Renoir e Cézanne. Paul Guillaume muore nel 1934 senza aver avuto il tempo di realizzare il suo progetto di un museo d’arte moderna. Completata e modificata da sua moglie, la collezione illustra le opere rappresentative del classicismo moderno e dell’impressionismo prima di essere ceduta allo Stato nel 1960.


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Questo testo è stato inserito in un mio lavoro di prossima pubblicazione.

domenica 14 giugno 2015

ALLE NOZZE, AI BALLI, AI CANTI teatro barocco ieri sera al POMPEI LAB. Un'esperienza da ripetere senza dubbio alcuno!


Ieri  sera,  al Pompei lab è stata rivissuta tutta la magia di una rappresentazione barocca : musica, danza, canto e teatro. Ci vuole molto coraggio a presentare sonorità lontane, ma questo coraggio non è mancato al regista della rappresentazione, nonché voce contro tenore, il bravissimo ed eclettico Enrico Vicinanza: giovane talento di una scena musical espressiva che a Napoli ha radici antiche. Forte e sicuro del suo apprendistato desimoniano Enrico Vicinanza ci ha donato ieri un lavoro raffinatissimo e per musica e per testi: abbiamo tutti potuto godere    delle musiche di  Gorzanis, Kapsberger, da Nola, Biffi, Aranes, ovvero tutti grandi autori di composizioni antiche, popolari e colte, di scuola napoletana ed europea. Ma lo spettacolo è stato un misto di sinergie e di evocazioni sceniche degno di grande teatro: suggestivo il clavicembalo aperto col coperchio della cassa armonica finemente decorato suonato magistralmente dal  giovanissimo maestro Francesco Aliberti, mentre  riuscivano a trasportare in un’altra dimensione le voci di Fabio Anti, tenore, e Angela Luglio, e Maddalena Pappalardo, soprani e gli altri due musicisti Paola La Forgia: viola da gamba e Tommaso Rossi: flauti dolci.  Per alcuni attimi ad occhi chiusi mi sono ritrovato in un teatrino barocco nel quale gli uomini cantavano in falsetto, gareggiando con le prime apparizioni femminili sulla scena, mentre una bravissima e diafana danzatrice, Alessandra Sorrentino, eseguiva pantomime delicate. Tutto questo è stato ieri sera “Alle nozze, ai balli e ai canti” villanelle, moresche e conzonette napolitane  nato dalla collaborazione del Laboratorio Turchini con un team di artisti, volontari ed amici, tutti  orbitanti  attorno al Pompeilab, centro di promozione culturale e sociale con sede a Pompei, un lavoro di intensa sinergia  che mira ad una gioiosa fusione fra le arti coreutiche coinvolte. I testi per la maggior parte villanelle e moresche, simboleggiate anche da una mezza luna saracena che dominava tutta la scena. La “villanella alla napoletana” o semplicemente “napoletana”, fu dopo il madrigale il genere di musica profana più diffuso in Italia e tra i più amati in tutta Europa, per oltre un secolo, dal 1537 alla metà del Seicento. Esiste infatti una data di nascita che corrisponde alla più antica raccolta di “villanelle”, stampata a Napoli nel 1537 e che fu forse una realizzazione tardiva dell’omaggio di vari cavalieri e nobili napoletani all’imperatore Carlo V, che risiedette a Napoli per alcuni mesi fino all’inizio del 1536. “Nelle villanelle delle origini vi è certamente un’ atmosfera popolare, anzi contadina e villanesca, ma resta soltanto un gioco in cui i nobili esecutori fanno il verso a quelle espressioni, ne imitano con fine divertimento intonazioni nasali o effetti gutturali e onomatopeici” (Dinko Fabris) . Un teatro d’autore dunque, che ha fuso insieme canti e parola recitata in napoletano antico dai bravissimi Adelaide Oliano, Mario Riccardi  alcuni testi di un autore scafatese del Filippo Sgruttendio de Scafato fine sec. XVI/XVII ma anche testi di Lorenzo Il magnifico. Una serata assolutamente unica da riproporre ancora per la gioia ed il godimento degli amanti di queste operazioni coltissime che elevano il livello spesso deprimente di ciò che si vede troppo spesso in giro. Un grazie allora ad Enrico Vicinanza e a tutti coloro che hanno contribuito a realizzarlo.
Franco Cuomo – Vico Equense- 14-6-2015

mercoledì 3 giugno 2015

La Vico Equense reale dell'ultimo weekend e quella che tutti vorremmo che fosse




Cari amici, ho evitato di commentare il vostro video, non per snobbismo, come qualcuno mi ha scritto, ma perché non mi andava di discutere su un lavoro tecnicamente pregevole e ben confezionato, un lavoro fotografico che, appunto, come tutti i buoni lavori fotografici enfatizza l'oggetto che fotografa attraverso le tecniche di riproduzione: nel caso del video: una bella e suggestiva colonna sonora, le nuvole in movimento veloce come dello scorrere dell'eternità su un posto, Vico Equense, che sembrerebbe preservato dalla decadenza ( è questo l'effetto che vogliono dare i cieli in movimento), bellissime inquadrature, maestosi paesaggi, che appunto, proprio perché tali sono lontani e distanti dall'osservatore, landscape alla fine questo vuol dire. Ora, non voglio dire nulla su tutto ciò, anche se mi sembra di aver già espresso con questo commento il mio giudizio estetico sul lavoro. Voglio invece soffermarmi su quello che questo video in maniera intellettualmente non onesta non dice: Non dice per esempio che non è vero "che chi viene a Vico apre una porta che racconta di mari e di silenzi" . Ieri per esempio le marine erano un formicaio dove si paga anche l'aria mentre in cambio si offrono rozzamente un cattivo servizio e una pessima qualità di tutto. Ieri per esempio, primo weekend estivo, the doors of perception, le porte della percezione si sono aperte su un maxi ingorgo di miasmi di Co2 e polveri sottili che è durato fino ed oltre mezzanotte , mentre l'unica musica che si poteva ascoltare era lo strombazzo dei claxon impazziti nelle via delle marine, sulla statale sorrentina, nella piazza del paese e non solo in questa. E' vero, non bisogna parlare sempre male, è vero, dobbiamo essere animati da sano ottimismo, ma a chi o a cosa serve un video come il vostro se non a favorire tutti quelli che mantengono e perpetrano questo delirante e distruttivo ( per il paese fisico e per i suoi abitanti) stato di cose? A chi o a cosa servono le feste a Vico di cuochi e degustatori, quando poi lala maggior parte mangia solo pizze e panini e kebab per i weekend mordi e fuggi che le periferie urbane vomitano in costiera e nelle città d'arte, distruggendo questa e quelle come in maniera allarmante denunciano i TG su questo primo weekend mordi e fuggi? A chi o a cosa serve un festival del cinema, se il paese non ha una sala già da 12 anni? Ci si può legittimamente interrogarsi su tutto questo o chi lo fa, passa per essere un disfattista, un anti propositivo o un gufo come dicono i democratici? Quel video che avete fatto, molto suggestivo rappresenta un’immagine di Vico che non è reale o forse se lo è lo è solo qualche volta nel tardo autunno o in inverno, ma non certo in questa stagione. Allora qual è lo scopo? Se lo scopo è quello di far diventare il paese reale, che è quello che abbiamo visto tutti sabato, domenica, lunedì e martedi e che ho descritto, come il paese immaginario o desiderato che avete descritto voi, allora mi piacerebbe, che come amici di questo posto diceste qualcosa sul degrado di un litorale devastato da una baraccopoli continua, dall’impossibilità di stare seduti in uno dei quattro bar del paese, senza dover urlare per sovrastare i decibel di rumore da traffico e soprattutto senza avvelenarsi con i gas di scarico. la galleria è il mostro più mostruoso che sia stato malamente progettato, una galleria che ci ha regalato l’attraversamento di TIR, autobotti anche con materiali infiammabili, e bus da gran turismo attraversare la città. Quale è il rapporto tra questa Vico e quella che voi avere rappresentato? Ecco mi piacerebbe che me lo diceste.
 
Un caro saluto, Franco Cuomo

LA PENISOLA SORRENTINA MUORE PER ASFISSIA E RUMORE. AMBIENTE SUPERATI I LIMITI DI GUARDIA DELLA VIVIBILITA'


 Pubblico il post di Gino Gelli relativo a ciò che si è verificato ieri pomeriggio in Costiera Sorrentina e che si è protratto fino ed oltre la mezzanotte: Un mega ingorgo che ha paralizzato tutte le città della penisola creando condizioni di autentica invivibilità. Già verso le 17, non si muoveva più nessuno a Vico Equense, mentre la galleria ANAS era già intasata da un serpentone che arrivava fino ai caselli ( un problema serio che qualcuno dovrebbe prendersi la briga di risolvere). Per chi scrive, la Costiera Sorrentina in termini di ambiente è morta, mentre i flussi turistici tra poco, se continuerà questa situazione troveranno altre mete meno inquinate sia dal punto di vista atmosferico che acustico. Prevedo un'estate terrificante per i residenti sempre più imbarbariti dalla dimensione inumana delle loro esistenze.  Problema sottovalutato ma devastante. E non solo nei giorni festivi, quando la situazione è esasperante: da maggio a ottobre traffico ed inquinamento sono una costante tutti i giorni. La soluzione sarebbe un sistema di pulman più piccoli, più frequenti e meno inquinanti, e soprattutto una Circum funzionante, magari con corse serali, ma ci sarà davvero mai la volontà politica di farlo ? E gli albergatori? E i cosiddetti  " imprenditori" balneari e i proprietari di parcheggi dove li vogliamo mettere?A Sorrento hanno costruito 3 parcheggi negli ultimi anni, ora tocca riempirli... Vico non ne parliamo. E pensare che la neoeletta consigliere regionale signora Flora Beneduce parla di costruire una dorsale in modo da incrementare ancora di più i  flussi di traffico anziché snellirli: è un’idea pazzesca I Come ancora più pazzesca è l’altra dell’ANAS che prevede un altro tunnel che trafori la montagna di Scutolo.   Questi scienziati che ci “amministrano”  estrarranno ancora una volta dal cilindro le loro soluzioni provvisorie ovvero : apertura del viadotto ecomostro o la necessità Beneduce  docet, di realizzare la strada della dorsale della costiera già cara al di lei marito.
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 "Vorrei lasciare una brevissima considerazione su questa bacheca di frontiera tra Stabiae e la penisola sorrentina, con riferimento alla vera e proprioa invivibilità della penisola nel periodo estivo e nella gran parte dei giorni festivi, per via di un inquinamento da traffico devastante. Se si prendessero la briga di misurare i valori degli inquinanti e delle polveri sottili, credo che il prezzo degli immobili in penisola comincerebbe a decrescere ....E scommetto che se si cominciasse a chiedere ai turisti stranieri di lasciare un giudizio sulla qualità dell'aria nelle zone trafficate, si leggerebbero valutazioni molto pesanti.La penisola avrebbe bisogno di un 'governo' unitario della viabilità. Se ci fosse una quota significativa di persone intelligenti, la penisola potrebbe diventare un esperimento 'pilota' di RADICALE riduzione della circolazione di veicoli alimentati a benzina e diesel. Con opportuni incentivi si potrebbero incoraggiare i residenti a passare ai veicoli elettrici. Ma soprattutto si dovrebbe creare una rete di trasporto pubblico NON inquinante, CAPILLARE, che consentirebbe ai più di ridurre proprio ai minimi termini l'uso di un veicolo privato. Se sapesse fare una cosa del genere, innanzitutto si farebbe del bene ai 'sorrentini', ma poi, così, la penisola veramente si porrebbe ai vertici del turismo di qualità.Ieri in penisola è stato veramente un inferno di traffico e smog, e mi premeva dire una parola, data la strafottenza di residenti e delle istituzioni, a cominciare dal nuovamente eletto Cuomo, Sindaco del 'capoluogo' che è Sorrento."
Gino Gelli

lunedì 1 giugno 2015

SUGGESTIONATO DA UN CONVEGNO.LEOPARDI FILOSOFO/POETA E IL DISCORSO SOPRA LO STATO PRESENTE DEI COSTUMI DEGLI ITALIANI



C’è uno spazio nella lingua di Giacomo Leopardi  che forse da sempre prediligo rispetto alla lingua poetica: è lo spazio linguistico di Leopardi filosofo, uno spazio spesso saltato se non trascurato dalle antologie scolastiche o da ciò che si fa studiare di solito a scuola, dove, Giacomo Leopardi è collocato all’inizio della poesia romantica italiana. Lo spazio linguistico di cui parlo è racchiuso nelle  4526 pagine dello Zibaldone dei pensieri, meglio noto come lo Zibaldone  ovvero una serie di appunti frammentari scritti tra il 1817 e il 1832 e in un’altra operetta molto ridotta ma non meno importante, mi riferisco al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani composto tra il 1824 e il 1826, cronologicamente coevo alla prima stesura delle Operette Morali che in misura minore anche potrebbero essere incluse in questo spazio filosofico  ma che invece preludono già ai Canti e a componimenti in prosa, divise tra dialoghi e novelle dallo stile medio e ironico. Voglio soffermarmi dunque sul Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani sia per la sua profonda riflessione morale sia per l’acuta introspezione antropologica attraverso la quale Leopardi ci fornice uno spaccato culturale  della società italiana, che sembrerebbe essere stato scritto ai giorni nostri, tanto veritiere e confermate sono le sue analisi. Il Discorso sugli Italiani fu composto a Recanati probabilmente tra la primavera e l’estate del 1824, quando ancora era viva in Leopardi l’esperienza del viaggio a Roma, in seguito alle proposte di collaborazione all’“Antologia” rivoltegli da Vieusseux nelle lettere del gennaio-marzo di quell’anno. Il testo rimase però incompiuto, e in Italia fu pubblicato e conosciuto solo nel 1906. Il Discorso, opera fondamentale nella riflessione filosofico-politica leopardiana (la cui diagnosi sull’antropologia italiana, come ho già detto, è oggi ancora attuale), fa parte di uno stile di pubblicistica molto in voga tra il sette-ottocento detto del piccolo genere letterario, libelli che affrontavano argomenti che si discostavano dall’esercizio letterario tout court  e che di solito appunto o trattavano argomenti filosofici o politici o l’uno e l’altro  insieme come in questo caso che tratta della descrizione dei caratteri nazionali: lo stesso Leopardi cita fra i “precedenti” il romanzo epistolare Corinne ou l’Italie di M.me de Staël (1807) e gli scritti di Giuseppe Baretti. Contesto naturalmente, le valutazioni di De Sanctis e di Croce, ovvero il vecchio filone della cultura laicista italiana, che nega la filosofia di Leopardi, ritenendola scarsamente significativa, non originale né profonda. Il pensiero leopardiano prende l’avvio da una meditazione sull’infelicità in sé, della quale vengono indagate le cause, le dinamiche e le conseguenze. Leopardi così respinge le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo, si ribella alla meschinità del suo tempo e alle convenzioni del suo ambiente, che giudica arido e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in cui gloria e fama, unici antidoti contro il grigiore della vita, erano possibili, conseguibili. Si scaglia con veemenza contro i miti dell’Ottocento, la storia e il progresso, e contro la stoltezza di un secolo che dalla filosofia della storia di Hegel, esalta l’uomo come creatore della realtà. Leopardi era troppo immerso a tradurre Mosco, Lucrezio, Epitteto ed altri grandi classici per approdare alla dialettica hegeliana, approdò però fortuitamente al  Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, e lo stesso Foscolo, divenendone, per i suoi contemporanei, un esponente principale, pur non volendosi mai definire romantico perché di formazione non lo era.  Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista ante litteram o almeno un precursore dell'Esistenzialismo. Per Leopardi si tratta di un antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con forza, affermando che la storia non è progresso, ma regresso dal primitivo stato di natura, buono e felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente. Sono fortissimi i richiami e la conoscenza di Rousseau, che però Leopardi credo non abbia mai citato. Per il Filosofo/Poeta la realtà è illusoria: manifestando un’evidente consonanza con Schopenhauer, Leopardi sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo la realtà niente altro che sogno, come scrive anche  Calderòn de la Barca. Questo concetto è ribadito nelle opere della maturità : le Operette morali e Canti posteriori al 1827. Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si legge: "Sappi che dal vero al sognato non corre altra differenza se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, mentre quello non può esserlo mai".
Dunque queste le radici filosofiche di Leopardi, una filosofia antisistematica e frammentaria che anticipa molte delle filosofie antisistematiche del secolo successivo.
Di questa filosofia è intriso il Discorso.  Il testo è diviso in cinque parti, dedicate la prima ad una introduzione in cui si motiva la necessità di una nuova descrizione dei costumi degli Italiani; la seconda all’analisi delle peculiarità che caratterizzano la società italiana; la terza ad un confronto fra la situazione italiana e quella delle altre nazioni d’Europa, e all’invettiva contro l’esaltazione del Medioevo, quest’ultima, dovrebbe – a mio parere – smantellare la visione di un Leopardi con una sensucht romantica e accreditare una volta per tutte quella di un Leopardi sensista e ancora molto intriso di cultura meccanicistica e illuminista  ; la quarta all’individualismo (“Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia”), alla differenza di costumi tra città e province e alla necessità di promuovere la civiltà “come rimedio di se medesima” (ciò a causa della situazione paradossale dell’Italia, che è troppo poco civile per godere dei benefici della civilizzazione, come Francia Germania e Inghilterra; ma troppo civile per godere ancora dei benefici dello stato di natura, come Spagna Portogallo Polonia e Russia); la quinta infine agli effetti del clima sui caratteri nazionali e alla “decisa e visibile superiorità presente delle nazioni settentrionali sulle meridionali”. Emerge dalla lettura del testo, un’attribuzione che Giacomo Leopardi connota come il tratto specifico degli italiani: un disincanto/disillusione, che farebbe degli italiani il popolo più filosofo dell’Europa di allora, ma, e qui cito testuale, “ questa caratteristica fa si che gli italiani non temono e non curano per conto alcuno di esser o parere diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico,in nessuna cosa e in nessun senso.[…]Quindi non havvi assolutamente buon tuono,o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa.Ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano fa tuono e maniera a sé.  Non avendovi buon tuono, non possono avervi convenienza di società(bienséances). Mancando queste, e mancandola società stessa non può avervi gran cura del proprio onore, o l’idea dell’onore e delle particolarità che l’offendono[…]ciascun italiano è presso a poco onorato e disonorato[…]perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta” [1]. Credo che questo Leopardi sia un intellettuale ancora più sofferto e pessimista di quanto non sia percepibile nei Canti. A questo Leopardi, il mondo opprimente di Recanati, non gli permetteva quella socialità che lui, attraverso corrispondenze serrate, immaginava essere oltre la siepe , ma, quale grande delusione quando si accorge che gli stessi salotti fiorentini  tradiscono quella “ convenienza di società” per un individualismo selvaggio e esasperato. Questo testo può essere affrontato solo con un acuto spirito critico e  rimane deluso il lettore che si aspetti da Leopardi un discorso un po’ folcloristico sugli usi e sui costumi dell’Italia (o almeno di quella a lui contemporanea). Intanto il termine «costumi» ha un senso più ricco e profondo che non «abitudini» o «usanze» (che per lo più consistono in tradizioni ricevute dal passato e non definiscono, se non superficialmente, il carattere di un popolo), e designa piuttosto una cultura, una mentalità e un modo di essere, conseguenti al diverso sviluppo della civiltà e della cultura italiana in seno ai popoli europei, e vale quindi come regola morale o di comportamento, come condotta o modo di vivere.
Dal testo emerge pure che alla base del discorso leopardiano, scritto nel 1824, sta la radicata convinzione che i popoli antichi erano superiori (e più felici) rispetto a quelli moderni retaggio di un illuminismo di stampo roussouviano. E ciò perché la civiltà ha distrutto le basi stesse della morale, e di conseguenza è preferibile una civiltà «media» piuttosto che una evoluta. Perché il progresso (o meglio il pensiero filosofico e scientifico che ne sono la causa) distruggono la sorgente della sola felicità possibile che consiste nell’immaginazione che permette la fuga da una natura matrigna e crudele. Per Leopardi i popoli che riescono spezzare questa oppressione ci sono le popolazioni settentrionali europee le quali  si rivelano superiori in tutto (e non solo nella letteratura e nel pensiero filosofico) perché in loro è più fervida l’immaginazione. «L’unione della civiltà con l’immaginazione è lo stato degli antichi»: in questa frase del saggio leopardiano c’è il suo senso della storia e la sua pratica poetica e letteraria». Detto in altri termini, la filosofia (e la civiltà che essa ha prodotto, specie quella illuminista) ha messo sotto gli occhi di tutti, con tragica evidenza, l’infelicità irrimediabile dell’uomo. Solo le illusioni che nascono dalla fantasia e dall’immaginazione sono in grado di rendere l’uomo, non diremo felice, ma meno infelice, cioè di alleviare la sua tristezza metafisica. Questo spazio linguistico concettuale definisce le sua  premesse illuministiche (e quindi sensiste e infine materialistiche).
Ma Leopardi malgrado lui è troppo italiano per essere un illuminista alla Voltaire e antesignano di una dialettica dell’illuminismo  di horckeimeriana e adorniana memoria, sviluppa poi un discorso contro la civiltà dei lumi, esaltando non la ragione, ma, romanticamente, la fantasia, come affermerà a più chiare lettere altrove e anche in poesia : “A noi ti vieta/ il vero appena è giunto,/ o caro immaginar;/[…] allo stupendo/ poter tuo primo ne sottraggon gli anni;/ e il conforto perì dei nostri affanni.”[2]). E anche qui, come spesso accade nel grande Filosofo/Poeta, ritornano i miti e i motivi fondamentali della sua speculazione e la disperata battaglia contro ciò che aggrava il desolato destino dell’umanità sulla terra. Ma il Discorso sui costumi andrebbe proposto nelle scuole o fatto conoscere più delle sue poesie più famose, perché è anche e soprattutto un approccio leopardiano per costruire una morale laica. Il Filosofo/Poeta tenta di mettere in piedi un’etica, fondata sull’onore, o meglio sullo «spirito di onore», anche se sa bene quanto sia fragile questo fondamento (e lo riconosce apertamente)[3].

Leopardi è ormai lontano dalla fede cristiana. E sente che «la morale […] è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora, né chi sa fino a quando, e non se ne vede il modo». Ma, secondo il Filosofo/Poeta, le cause del male e dell’immoralità starebbero nella disperazione che nasce dalla coscienza della vanità delle cose e dall’inutilità della vita. Certo anche nel Discorso ricorrono con frequenza i ben noti temi leopardiani (caduta delle illusioni, vanità del tutto, riso disperato…), ma il Filosofo/Poeta si cimenta in un tentativo disperato per ritrovare le basi di una convivenza possibile, pur nell’orizzonte desolato di un mondo privo di Dio e dei valori che a quella fede erano legati. E lo fa affrontando un impegnativo discorso politico sulla situazione italiana, sulla psicologia di un paese profondamente diviso, ma in cui tuttavia avverte dei «fratelli» («perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a miei fratelli?»). E non sarà un caso se il termine «fratelli» ricorre ben due volte nel Discorso.
Di discorsi «politici» Leopardi ne ha affrontati o avviati parecchi anche, come ho scritto in premessa, nel suo Zibaldone di pensieri. Ma quelle erano le pagine di un diario segreto, di un «giornale dell’anima» non destinato, almeno così com’era, alla pubblicazione. Mentre le idee che il Filosof/Poeta esprime nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani rivelano un impegno ben altrimenti costruttivo rispetto alle pagine satiriche della Batracomiomachia (dove Leopardi non salva nulla e nessuno) o a quelle stravolte dei Pensieri (dove la crudezza polemica non apre possibilità di dialogo, ma lo nega in partenza). Qui invece si respira già l’aria della Ginestra (1836), si avverte lo stesso spirito di fratellanza universale (quello che ci fa capire di quali aperture fosse capace Leopardi, senza i condizionamenti dovuti a un’infelice situazione storica e sociale).
Così, l’analisi leopardiana è spietatamente lucida. L’Italia è un paese dove non si conversa o si discute pacatamente, ma si schernisce l’interlocutore; un paese in cui non si gareggia per l’onore, e da uomini di onore, ma ci si combatte all’ultimo sangue. L’Italia è una terra dove non c’è convivenza civile, ma forzata; una società in cui ci si sbrana anziché collaborare al bene comune; un paese senza amor patrio, dove lo scherno dell’avversario prevale su tutto. L’autore vede ben al di là dei facili patriottismi e delle euforie risorgimentali, quando sente che nella penisola mancano quei legami che fanno di una collettività una «società stretta» e una «società buona», cioè un popolo di «fratelli», dove sarebbe possibile una morale universalmente valida, fondata non sulla legge (perché è una base poco solida la paura delle pene minacciate da un codice), ma sul senso dell’onore che indurrebbe a fare il bene per meritare il plauso e a fuggire il male per non incorrere nel disonore. Ecco, solo per queste crude e attualissime riflessioni ho prediletto questo libello, dirò di più, ma non credo sia importante in un convegno di studi su Leopardi, che non ho amato o se volete apprezzato il film di Mario Martone “ Il Giovane Favoloso”  che in qualche modo ha troppo attualizzato la figura del filosofo/poeta . Giovane ribelle che a ventiquattro anni  lascia finalmente il natio borgo selvaggio, va a Firenze ma non si adatta alle regole dell'alta società italiana che lo celebra e lo critica e infine lo emargina. E poi, insieme all'amico Ranieri con il quale sembra adombrarsi una passione nemmeno tanto segreta omosessuale l'arrivo a Napoli che è raccontata nel film come  un colpo al cuore e un colpo di fulmine.  Martone fa innamorare Leopardi di Napoli e ce lo descrive  innamorato  della gente dei quartieri popolari: degli scugnizzi, delle prostitute, delle taverne, dei bicchieri di vino e dei taralli. Finché scoppia il colera e l'amico Ranieri lo trascina a Torre Annunziata ai piedi del Vesuvio dove scrive La ginestra, la lunga poesia che racchiude il suo pensiero e con la quale si chiude il film. Una forzatura troppo forte per un filosofo/poeta che ha rincorso per la sua breve vita la convenienza della società, ovvero la bienséances e la politesse così lontane dalla società italiana allora come oggi.
                                                                                            Franco Cuomo




[1] Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Piano B Edizioni, Prato 2010, cit. pp. 29-30;. Sul concetto di bienséances Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2008, pp.46-67 e 261-270;
[2] Giacomo LleopardiAd Angelo Mai, v.100-105
[3] Giacomo Leopardi, Discorso…op. cit.