Golden Globe a Paolo Sorrentino , La Grande bellezza, perpetra un grande inganno quello del cinema che
vuole emulare la letteratura, ma lo fa esibendo trash a buon mercato e un’italianità
inesistente, caricaturale, da esportazione, quella che piace agli yankee. La Grande bellezza: un Sorrentino pretenzioso e noioso e un sempre
uguale a se stesso Toni Servillo. Un inganno di due ore e mezzo circa di
estenuante lentezza e di insopprimibile noia, mitigata da un bravo Carlo
Verdone e dalle battute facili di Carlo Buccirosso, sullo sfondo una Roma
adagiata su se stessa, silente e magnificamente imponente come solo Roma caput mundi può essere. Una Sabrina Ferilli che
pure non è dissimile da come è dal vero, nel senso che non recita mai, regala
uno spiraglio di un’umanità in un ruolo rischioso. Intorno attori che non
brillano per eccezionalità recitativa forse proprio per mancanza di una
struttura dei personaggi da interpretare: Iaia Forte, Isabella Ferrari,
Pamela Villoresi. “Parte come film
inspiegabile finché, mentre cerchi invano una spiegazione, non ti accorgi che
è pure inguardabile, una specie di paradosso visivo tipico di Sorrentino con
la macchina da presa. Ma tutti quei movimenti di macchina, quei piani
sequenza mimetici e sinuosi come le spire di un boa, quei primi piani intenti
a stanare la mostruosità del quotidiano e l’ambiguità della bellezza, si
rivelano altrettanti vicoli ciechi”( Nanni Delbecchi | 30 maggio 2013 Il
fatto Quotidiano). Il film si apre con un eserga da Cèline tratto da Viaggio al termine della notte: uno allora si aspetta la feroce cattiveria e la spietata secchezza dello stile
asciutto di Cèline, ma, fin dalle prime battute, ci si rende presto conto che
il film annaspa e si barcamena tra una improbabile descrizione della
decadenza di un mondo (il nostro ), un’ansia esistenziale legata al
sopraggiungere della vecchiaia ( buona parte dei personaggi è over cinquanta,
mentre i protagonisti principali sono
over sessanta) e il tentativo di una chiosa sulla letteratura come trucco e
finzione che rimanda a Céline ma in maniera grottesca e mai tragicomica. Ho rivisto il film per segnarmi una serie inenarrabile di “perle di
saggezza”, buttate lì da un ormai introvabile e improbabile gagà napoletano
super benestante con attico sul Colosseo, stavo per soffocare. Eccone alcune:”
Quando, da giovane, mi chiedevano: cosa
c'è di più bello nella vita? E tutti rispondevano: "la fessa!", io
solo rispondevo: "l'odore delle case dei vecchi". Ero condannato
alla sensibilità!" Poi ancora: “La
più consistente scoperta che ho fatto, pochi giorni dopo aver compiuto
sessantacinque anni, è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi
va di fare “ .Cioè, una cosa che avranno detto o pensato tutti quelli che
hanno superato i sessanta me compreso, ma il meglio della raffinata cultura maschilista Gep
Gambardella lo da con la sua amica scrittrice e comunista con simil attico. Un luogo comune
usato dai maschi compagni per denigrare l’impegno delle loro compagne e che
ha attraversato anni di femminismo per rimanere sempre uguale: “ La tua vocazione civile ai tempi
dell'università non se la ricorda nessuno. Molti invece ricordano
personalmente un'altra tua vocazione che si esprimeva a quei tempi ma che si
consumava nei bagni dell'Università...". Mi sono chiesto quali lotte
universitarie e impegno civile da ciclostile potevano esserci state nella seconda
metà degli anni ’80, visto che la signora dichiara di avere 53 anni, ma parla
come una Lidia Ravera senza averne la sua ironia, e che ne ha giusto una decina
più di lei. E le frasi sconcertanti e banali continuano a iosa, frasi che –
nella testa di Sorrentino – dovrebbero accreditare un grande scrittore che ha
scritto un solo romanzo nella sua vita: Isabella Ferrari, la ricca milanese
che si autofotografa esordisce mentre passeggia indolente con una frase tratta
dal finale del romanzo di Gep: “A luci
intermittenti l'amore si è seduto nell'angolo, schivo e distratto esso è
stato. Per questa ragione non abbiamo più tollerato la vita." Maronna
mia!!!!! Siamo allo scartocciamento dei Baci Perugina!!! O la monaca santa (
Sonia Gessner ) :” Mangio soltanto radici, perché le radici sono importanti...!" o “La povertà non si
racconta, si vive!" e concludo, ma ne ho segnate molte altre, con
Sabrina Ferilli “Jap: "È stato
bello non fare l'amore..." Ramona: "È stato bello volersi
bene!". Ora, forse io capisco pure il successo che ha avuto con gli
americani, che si sa, sono dei bambinoni con scarso senso dell’ironia e che
comunque ci vedono sempre molto teatrali, ma personalmente credo che un europeo
che ascolti questi intermezzi fraseggiati, un francese o un inglese, o, uno
smaliziato italiano, non possono che notarne la ridicola insulsaggine.E l'arte, come è trattata l'arte! Una che finge di fracassarsi la testa e una bimba che rovescia barattoli di vernice in una tela: Ma via! L'arte è una cosa seria!!! Diamine!!! Sono crollato.
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Paolo Sorrentino, come molti
registi prima di lui , tenta di raccontare Roma pescando nel
cuore della sua “nobiltà nera”, aprendo tombe da dove fuoriescono tetre ed improbabili
figure della città eterna, esseri notturni ( le vecchie principesse che giocano
a carte nell’oscurità) che spariscono all'alba, all'ombra di un colonnato, di
un palazzo nobiliare, di una chiesa barocca. Un carnevale escheriano, mai
realmente tragico ma solo miseramente grottesco. Vengono in mente altri film di
certo più intensi e meglio costruiti. Viene in mente La Terrazza di Ettore
Scola del 1980 dove un autoironico Jean Louis Trintignant, sceneggiatore in
crisi, era tragico con leggerezza e senza toni caricaturali di Verdone, o una
padrona di casa come Carla Gravina, disincantata e realmente intellettuale al
cui confronto Isabella Ferrari è solo una sfocata
parodia. Si avverte in tutto il film la necessità di una sceneggiatura forse
meglio congegnata e più curata. La visione della decadenza da
basso impero in versione discoteca è scontatissima e ovvia, se si la si
raffronta a Roma di Federico Fellini e le
riprese delle feste restano parecchio indietro rispetto a ciò che spesso
veramente sono nella realtà, mentre il discorso finale della santa ultra
centenaria sulle radici sconcerta per la banalità dell’assunto.
Jep Gambardella sembra più un gagà che non raffinato
dandy e inoltre – lo ripeto- Servillo non mi convicerà mai come attore fino a
quando non comincerà a recitare veramente. Quella che sembra poesia alta alla fine si rivela per quello che è: luoghi comuni sull’età, sui ricchi, sulla religione, sulla vita. Sullo sfondo arte ed architettura a profusione con sottofondo di canti gregoriani: dal Galata morente dei Musei Capitolini alla Fornarina di Raffaello della collezione di Palazzo Barberini e una apologia della senilità. Credo, per concludere, che alla fine che tra i molti limiti di la Grande bellezza, oltre alla oscura sospensione di alcune frasi quali quella per esempio, sulla “fessa” che piaceva agli amichetti di un giovanissimo Jep Gambardella, mentre a lui piaceva “ l’odore della casa dei vecchi”: cosa ci vuole dire Sorrentino? Che bisogna acquisire una sensibilità alla vecchiaia e alla caducità per meglio comprendere il mondo? Ma non è maledettamente ovvio anche questo, soprattutto detto da lui che di anni ne ha 43? Il suo Viaggio al termine della notte sembra riassumere in sé la disperazione del Novecento, ma è in realtà un’opera potentemente comica, esilarante, in cui lo spettacolo dell’abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell’incubo che rappresenta. Nel film di Paolo Sorrentino tutto questo non c’è: c’è solo una Romacafonal alla D’Agostino ( e dunque siamo nell’ovvio addirittura televisivo) e lui, Sorrentino/Jep Gambardella si prendono troppo sul serio, con una preponderante vena di fatalismo napoletano, che, lasciatemelo dire risulta essere alla fine il peggiore dei luoghi comuni e si esce dalla sala, dopo aver visto il film, mogi e silenziosi. Se a Los Angeles lo hanno premiato, hanno premiato un film non eccezionale
Franco Cuomo
Nella tua critica a tratti molto condivisibile manca però una trave portante dell'impalcatura, senza la quale tutto sarebbe crollato ma non per i vizi secondari pur numerosi che tu hai così doviziosamente elencato. Le mille pagliuzze con cui demolisci l'intero film agli occhi dello spettatore non riescono infatti a far dimenticare questa trave come fulcro di tutta l'ispirazione: la volontà, quasi permeata del bisogno di un irritato ma rassegnato revanchismo mai fino in fondo risolto ed appagato, di descrivere l'opulenza marcia dell'intellettualismo borghese di "sinistra", come condanna dell'ipocrisia più cialtrona e becera, quella dei cosiddetti benestanti che si reputano contro corrente. Quella sinistra molto simile ad un'immagine del Che immortalata su una "T-shirt" alla moda, appena dismessa e buttata là con noncuranza tra le suppellettili del bagno patronale dai rubinetti dorati e dai fini alabastri. Un'immagine non presente nel film ma che potrebbe benissimo appartenervi, in quell'aria respirata per tutto il film che invece scomoda pezzi d'arte da novanta di una Roma, quella sì, uguale a se stessa come il volto di una bella donna matura immortalata in un dipinto ad olio. Una matrona che in realtà sta per morire perché malata. Un’aria che pregna tutto il film come il profumo dolciastro e inebriante esalato da un cesto di frutta troppo matura che non riusciremo mai a finire di mangiare perché marcirà prima. Una Roma molto attuale, popolata da quei protagonisti del potere di cui non riusciremo mai a liberarci, un'elitaria compagnia di teatranti, di grotteschi personaggi che giocano a riprodurre se stessi in un gioco più grande di loro, il gioco dell'arte, della cultura vera, di cui loro non potranno mai appropriarsi spiritualmente ma che possiedono materialmente perché soltanto ricchi o potenti. Sono quelli che possono andare contro corrente solo nella vasca a idromassaggio del loro attico. Essere ed avere è così superato? I ricchi non comprendono l'arte ma la comprano o la plagiano con la bambina che imbratta costosissime tele o con la disgraziata artistoide che sbatte la testa sull'antico muro romano tra gli applausi del pubblico borghese che crede di assistere a un’opera d’arte. Ecco che a quel punto la cornice di un simile quadro diventa allora più importante di ciò che vi è raffigurato, perché rappresentato da coloro che vivono in mondo superficiale, rituale, inconsapevole.
RispondiEliminaLa raffigurazione di tutto ciò non può però essere soltanto quella di un certo ambiente ma neppure quello di una città popolana turistica o vissuta, e pur altrettanto vera e reale come quella della prima scena, ma è quella di una Roma non per tutti, citata, virgolettata, interpretata, violata, usata, incompresa totalmente: una Roma languida, ricca di struggente, straripante, opulente,ironica, grande bellezza.
Questa è l'impalcatura centrale del film e messa così a nudo si lascia vedere tutta, anche nell'esagerato compiacimento del tratto pittorico dell’artista dove a volte si rende persino antipatico, provocante, beffardo come nella scena della giraffa che sparisce nel nulla per il trucco di un prestigiatore o delle cicogne e dei fenicotteri sul terrazzo che la madre Suora fa volar via con uno sbruffo.