martedì 27 novembre 2012

Napoletanità e cultura. Andy e Franco: Et in inferis ego.(1)





       Andy:

       Franco, proprio sulle pagine di questo blog, mi accusò tempo fa di essere vittima di un male culturale molto diffuso a Napoli, ovvero il fatalismo di matrice storicista. Non ricordo i dettagli della discussione, ma sono certo di essermi in seguito difeso da tale accusa, forse imputando quel po’ di passività che mi contraddistingue al fascino della tyche greca, ai fatti, piuttosto che al fermento tardoromantico della provvidenza storica. Sul fatto che una simile temperie culturale aleggi nel cuore filosofico di Partenope, però, Franco ha perfettamente ragione, volendo anche solo richiamare la discussione, da me riportata qualche articolo addietro, che avevo intrattenuto con una laureanda in filosofia, convinta che l'idealismo riassorbirà prima o poi il nichilismo come semplice momento di negazione necessario all'evoluzione.

       Quasi per contrasto, pochi giorni or sono i miei studi postuniversitari mi hanno costretto a ripensare alle radici profonde di certe formae mentis, di certe tradizioni culturali ormai diluite dai secoli, eppure ancora attive come certe medicine omeopatiche, che più s'annacquano e più fanno effetto. L'occasione è stata data dalla rilettura del Gattopardo, in passato oggetto solo di un fugace colpo d'occhio, ed oggi apparsomi in tutta la pienezza dell'antistoria, illuminata dalla luce radente di un sole mortifero. Ho potuto osservare i due Sud d'Italia, legati dalla fede in un fato più grande degli dei, separati dalle convinzioni circa la natura e lo scopo dell'oscuro disegno del destino che governa gli uomini: lì dove i napoletani cercano di accattivarsi il volto benigno della sorte, tentando in ogni modo di sbirciare oltre la benda col fare amabile e bastardo del guascone, e le carezze fuggevoli ai corni rossi o ai genitali, i siciliani allargano le spalle al giogo di un volere cieco e insensibile, che solo consente di analizzare il male in ogni sua più piccola minuzia, ma lega le mani ad ogni tentativo di intervento.
       E mi impressionano le parole di Capuana sullo scorrere del tempo nell'isola, quasi fosse staccata dal mondo: "Le rivoluzioni in Sicilia sono come gli accessi febbrili dei bambini: durano pochi giorni, poi tutto torna come prima".
       Sic est.


       Franco: sic est!

       Non ti accusai, caro Andy, come avrei potuto? Ti ricordai solamente che il “ finalismo di matrice storicistica ” che attribuisce un senso alla storia e che aveva riscosso ed ancora riscuote successo nella cultura partenopea voleva essere una risposta al fatalismo come forma mentis di radicati atteggiamenti insiti nella cultura del Sud. La storia con il suo fine avrebbe dovuto emancipare l’umanità dalla Physis che era quella parte del Tutto che è il mondo diveniente. Oggi della Physis, quale concetto principe, resta ben poco, perché tale concetto è legato al divino. La dissacrazione attraverso cui la modernità ci ha portato ci ha trascinato in un mondo disabitato dal divino e quindi dalla totalità. Il finalismo storicistico – teorizzato non a caso dal napoletano Giambattista Vico-  si muove nel tempo, ma sul fondamento di un ordine universale ed eterno, trascendente rispetto alla storia particolare dei singoli uomini. Questa "storia ideale eterna" costituisce la norma verso cui la storia concreta deve emancipare il mondo dal cieco fatalismo. Ma Napoli ed il Sud si ostinano a ripercorrere un modello, che solo un pallido ricordo può ancora definire greco, e la Tyche a te cara, amico mio, la si invoca sempre e solo perché siamo fagocitati dalla mancanza di un Νóμός, che deprime la nostra presenza riflessiva: evochiamo la Fortuna perché ci porti via da una prigione che noi stessi spesso ci siamo costruiti. Tomasi di Lampedusa, che ho amato istintivamente perché mi catapultava in un affresco epocale dai vividi contrasti, rimane anch’egli vittima di un cliché quando fa dire a Tancredi – un nome che non a caso incarna la storia della Sicilia : « Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi ». E poi, in riferimento alla sua concezione della storia umana, l’espressione di don Fabrizio: « e dopo sarà diverso, ma peggiore ». E Capuana invece – nonostante fosse più vicino al naturalismo francese e alla lezione verista del Verga- ugualmente non riesce a scrollarsi da dosso questo cliché, che perdura ancora oggi soprattutto a Napoli. Mi permetto, e scusami se lo faccio, di rinviarti al mio ultimo lavoro “Dei volti che ha Medusa. La drammaturgia del rischio[1] che ho presentato a Napoli l’altro ieri, nel quale invito gli intellettuali di questa città a rifuggire dai facili stereotipi che Napoli/Medusa impone con la sua napoletanità, perché, alla fine, chi resta in questa città può guardarla per descriverla solamente riflessa in uno specchio, come fece Perseo con  la Medusa, per non rimanere pietrificato e per riuscire alla fine pure a mozzarne il capo. Alla fine, quando si andava a cinema a vedere Massimo Troisi e tutti erano entusiasti io provavo un fastidio insopportabile perché non riuscivo a ridere di nulla e in quelle risate in sala vedevo solo complicità aguzzine. Sic est!

p.s
per bearwww: non avverrà più. Promesso e se avessi un tuo recapito il libro te lo avrei regalato J 





[1] Cfr. Franco Cuomo, Dei volti che ha Medusa. La drammaturgia del rischio, Longobardi editore, 2008.
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(1) da Franco Cuomo, Saggio sulla vita offesa, Boopen ed. Napoli, 2009;

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