Andy:
Franco,
proprio sulle pagine di questo blog, mi accusò tempo fa di essere vittima di un
male culturale molto diffuso a Napoli, ovvero il fatalismo di matrice storicista.
Non ricordo i dettagli della discussione, ma sono certo di essermi in seguito
difeso da tale accusa, forse imputando quel po’ di passività che mi
contraddistingue al fascino della tyche greca,
ai fatti, piuttosto che al fermento tardoromantico della provvidenza storica.
Sul fatto che una simile temperie culturale aleggi nel cuore filosofico di
Partenope, però, Franco ha perfettamente ragione, volendo anche solo richiamare
la discussione, da me riportata qualche articolo addietro, che avevo intrattenuto
con una laureanda in filosofia, convinta che l'idealismo riassorbirà prima o
poi il nichilismo come semplice momento di negazione necessario all'evoluzione.
Quasi per
contrasto, pochi giorni or sono i miei studi postuniversitari mi hanno
costretto a ripensare alle radici profonde di certe formae mentis, di certe tradizioni culturali ormai diluite dai
secoli, eppure ancora attive come certe medicine omeopatiche, che più
s'annacquano e più fanno effetto. L'occasione è stata data dalla rilettura del Gattopardo, in passato oggetto solo di
un fugace colpo d'occhio, ed oggi apparsomi in tutta la pienezza
dell'antistoria, illuminata dalla luce radente di un sole mortifero. Ho potuto
osservare i due Sud d'Italia, legati dalla fede in un fato più grande degli
dei, separati dalle convinzioni circa la natura e lo scopo dell'oscuro disegno
del destino che governa gli uomini: lì dove i napoletani cercano di
accattivarsi il volto benigno della sorte, tentando in ogni modo di sbirciare
oltre la benda col fare amabile e bastardo del guascone, e le carezze fuggevoli
ai corni rossi o ai genitali, i siciliani allargano le spalle al giogo di un
volere cieco e insensibile, che solo consente di analizzare il male in ogni sua
più piccola minuzia, ma lega le mani ad ogni tentativo di intervento.
E mi
impressionano le parole di Capuana sullo scorrere del tempo nell'isola, quasi
fosse staccata dal mondo: "Le
rivoluzioni in Sicilia sono come gli accessi febbrili dei bambini: durano pochi
giorni, poi tutto torna come prima".
Sic est.
Franco: sic est!
Non ti
accusai, caro Andy, come avrei potuto? Ti ricordai solamente che il “ finalismo di matrice storicistica ” che
attribuisce un senso alla storia e che aveva riscosso ed ancora riscuote
successo nella cultura partenopea voleva essere una risposta al fatalismo come forma mentis di radicati atteggiamenti
insiti nella cultura del Sud. La storia con il suo fine avrebbe dovuto
emancipare l’umanità dalla Physis che
era quella parte del Tutto che è il mondo diveniente. Oggi della Physis, quale concetto principe, resta
ben poco, perché tale concetto è legato al divino. La dissacrazione attraverso
cui la modernità ci ha portato ci ha trascinato in un mondo disabitato dal
divino e quindi dalla totalità. Il finalismo storicistico – teorizzato non a
caso dal napoletano Giambattista Vico-
si muove nel tempo, ma sul fondamento di un ordine universale ed eterno,
trascendente rispetto alla storia particolare dei singoli uomini. Questa "storia ideale eterna" costituisce
la norma verso cui la storia concreta deve emancipare il mondo dal cieco
fatalismo. Ma Napoli ed il Sud si ostinano a ripercorrere un modello, che solo
un pallido ricordo può ancora definire greco, e la Tyche a te cara, amico mio, la si invoca sempre e solo perché siamo
fagocitati dalla mancanza di un Νóμός, che deprime la nostra presenza
riflessiva: evochiamo la Fortuna perché ci porti via da una prigione che noi
stessi spesso ci siamo costruiti. Tomasi di Lampedusa, che ho amato
istintivamente perché mi catapultava in un affresco epocale dai vividi contrasti,
rimane anch’egli vittima di un cliché
quando fa dire a Tancredi – un nome che non a caso incarna la storia della
Sicilia : « Se vogliamo che tutto rimanga
come è, bisogna che tutto cambi ». E poi, in riferimento alla sua
concezione della storia umana, l’espressione di don Fabrizio: « e dopo sarà diverso, ma peggiore ». E
Capuana invece – nonostante fosse più vicino al naturalismo francese e alla
lezione verista del Verga- ugualmente non riesce a scrollarsi da dosso questo cliché, che perdura ancora oggi
soprattutto a Napoli. Mi permetto, e scusami se lo faccio, di rinviarti al mio
ultimo lavoro “Dei volti che ha Medusa.
La drammaturgia del rischio”[1]
che ho presentato a Napoli l’altro ieri, nel quale invito gli intellettuali di
questa città a rifuggire dai facili stereotipi che Napoli/Medusa impone con la
sua napoletanità, perché, alla fine, chi resta in questa città può guardarla
per descriverla solamente riflessa in uno specchio, come fece Perseo con la Medusa, per non rimanere pietrificato e per
riuscire alla fine pure a mozzarne il capo. Alla fine, quando si andava a
cinema a vedere Massimo Troisi e tutti erano entusiasti io provavo un fastidio
insopportabile perché non riuscivo a ridere di nulla e in quelle risate in sala
vedevo solo complicità aguzzine. Sic est!
p.s
per bearwww: non avverrà più. Promesso e se avessi un tuo
recapito il libro te lo avrei regalato J
[1] Cfr. Franco Cuomo , Dei volti che ha Medusa. La drammaturgia del
rischio, Longobardi editore, 2008.
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(1) da Franco Cuomo, Saggio sulla vita offesa, Boopen ed. Napoli, 2009;
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