mercoledì 5 febbraio 2014

In margine ad alcuni commenti sulla fotografa Vivian Meier vissuta tra New York e la Francia all’inizio degli anni ’50.

Viviane Meier fotografa, 1926-2009


Forse sarebbe più giusto dire che oggi immagini e scrittura sono alla portata di tutti nel senso che tutti possono realizzarne ( arte , fotografia, saggi, romanzi, video, ) il punto è vedere chi lascia una traccia ma soprattutto riflettere se ha ancora senso in questo universo mediatico lasciare tracce.

Forse, sarebbe meglio non lasciarne affatto. Bisognerebbe riflettere molto sul senso della fotografia della Maier: lei ha scattato foto per circa quarant'anni senza mostrarle mai a nessuno. Rullini interi mai aperti. Lei passeggiava e il suo occhio scattava attraverso la sua Rolleiflex. Poi è morta e poi ok la storia della scoperta. Ma siamo sicuri che la Meier volesse lasciare una traccia? Ecco a cosa mi riferisco quando parlo di non lasciare tracce. Oggi una cosa difficilissima perché ognuno di noi  vuole leggersi e vedersi soprattutto o sentirsi. Oggi capisco pure il senso di un vecchio  libro come Esthétique de la disparition  di Virilio e anche il suo più recente L’arte dell’accecamento. La Meier ha praticato una sublime ed inaccessibile estetica della sparizione. Una cosa oggi, a mio avviso, assolutamente impraticabile perché dovrebbe presupporre un'etica del privato in un mondo in cui ognuno fa vedere tutto di sé. E poi sono convinto che il mondo non è mai stato così “estetico” come ora. E lo è in un modo preciso: perché siamo talmente immersi dentro l’Arte che non abbiamo più bisogno di essa: è solo precipitando nell'accecamento della visione che smettiamo di vedere e poi di pensare e poi di riflettere. Dove si vede troppo non si può più immaginare nulla e noi oggi vediamo troppo e dunque non riusciamo ad immaginare più niente, ma soprattutto ogni cosa ci appare banale nel suo essere, già vista o già sentita, scontata, ovvia. E allora? Io credo che questo valga per tutto il sistema dell'arte. Oggi molti lavori artistici o fotografici o letterari sono gonfiati - nel valore monetario- dai critici, dalle gallerie disoneste, da editori commerciali, mentre appare sempre più difficile rintracciarne la valenza spirituale di questi valori, ma anche quella etica.
Non so cosa dire. Un convegno? Forse, ma non risolverebbe. Nel tempo di esposizione sempre più ridotto di ogni evento, nel susseguirsi degli shock che si anestetizzano a vicenda, tutto è visto e quasi simultaneamente dimenticato. Una irriflessa democrazia umorale non razionale, una stimmung che viene fatta coincidere con uno stato d’animo momentaneo subentra alla democrazia di opinione, ma, non riesce a trattenere nessuna delle emozioni che il suo regime di simultaneità produce e immette senza posa nel mondo. E’ un processo che si estende ad ogni evento mediatico: per le immagini come per le parole. L’arte di vedere esce di scena insieme alla filosofia politica, al linguaggio perché, non solo ogni fissità, ma ogni durata è ostaggio dell’ “inerzia panottica”, ovvero di tutto ciò rimane da un eccesso di esposizione, una sovraesposizione visiva. E in questa nebulosa in cui la “violenza delle immagini” sembra l’unico mezzo di espressione, solo l’opera oggettiva – dice Virilio – “emerge come fenomeno di resistenza,un gesto reale, infilato come un cuneo nella macchina celibe di una banale surrealtà”[1]. Ma che cos’è alla fine l’opera oggettiva? L’opera oggettiva è la scrittura e la parola: la resistenza si attua tramite la parola scritta e letta e più lunghe e complesse sono le parole più efficace è la resistenza all’oblio, in pratica l’opera oggettiva è l’esatto contrario di un Tweet, di un post. Ma l’opera oggettiva è anche quella che sa coltivare l’estetica della sparizione . Per ritornare all’arte o alla fotografia, forse dovremmo riconoscere che queste oggi possono praticarle chiunque, perché queste non sono più da tempo “auratiche" ( la fotografia poi forse non lo è mai stata neanche in origine per la sua riproducibilità intrinseca)  per dirla con Benjamin, oppure l’arte è talmente diffusa come estetismo nella società che non se ne sente più la necessità e poi magari sperare, ma neanche, che tra trenta o quaranta anni, quando si è morti, qualcuno scopre il tuo lavoro e lo fa diventare un business, ma questo è un’altra cosa e ciò che si continua a chiamare arte non è più tale già da tempo. Quell’arte è morta.

Oggi bisognerebbe fidarsi solo di se stessi. Ti piace una cosa? Anche di uno sconosciuto? La compri e imponi di pagarla per quello che essa vale in materiali , procedimenti usati e idea, basta , niente di più..



[1] Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina editore, 2007

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