“Lauritano è bello! Lo giuro!”. L’avrò letta migliaia di volte questa scritta su un muro di un palazzo a Via Nocera, ogni volta che passavo in circumvesuviana, e come me chissà quante altre persone la leggevano.“ Lauritano è bello ! Lo giuro!”, con vernice nera spruzzata su un muro giallo di un palazzo anonimo e fatiscente. Era una lettura involontaria la mia. La scritta mi appariva dopo un sonno comatoso consumato tra lo sferragliare di vagoni sgangherati gelidi e piovosi d’inverno, roventi d’estate, tra il cicaleccio molesto di maestrine d’asilo e le urla di operai che giocavano a carte. Quella scritta mi riportava in vita avvertendomi che tra due fermate sarei arrivato a casa. Ora quella scritta è sparita mentre, come velocemente succede anche ciò che scorreva attraverso il finestrino del treno è cambiato. Chi sa chi era Lauritano? Chissà chi voleva ricordare al mondo che lui era bello? Dai quei finestrini della circumvesuviana sono passate le trasformazioni del tempo sui luoghi. Ho trascorso più di quarant’anni su quei treni, se ci penso, gran parte della mia vita e mi viene ancora in mente Lauritano. Da bambino con mio padre e mia madre, quando ci recavamo a Napoli dai parenti, appena lasciavi Castellammare di Stabia eri immediatamente precipitato in una campagna florida, vedevo contadini curvi tra cavoli, broccoli, carciofi, che si stendeva a perdita d’occhio fino al campanile del santuario di Pompei che si stagliava alto nella pianura. Io invece dei contadini immaginavo cow boy e indiani che si rincorrevano perché mi portavo i soldatini che poi scaricavo nella borsa di mia madre. Il paesaggio, quel paesaggio, poi continuava ancora e alle falde del Vesuvio tra Torre Annunziata e Torre del Greco il treno correva veloce senza tutte le interruzioni di oggi tra alberi da frutta in fiore o blocchi di lava raggrumata e nera come segno tangibile della relazione con il Vesuvio, il mare e il golfo; la lava, come memoria e realtà di violenza e pietrificazione; la storia dell’uomo e ma soprattutto la storia di quella terra. L’ondulato paesaggio della campagna vesuviana scorreva veloce, illuminato a tratti da un sole vivido che faceva capolino dalle nubi e io come al solito mi addormentavo per svegliarmi a Napoli. Dio quante ore di sonno avrò fatto in vesuviana! Dormivo e crescevo, dormivo e invecchiavo e a volte sono rimasto ipnoticamente incantato a guardare il riflesso del mio viso nel vetro del finestrino: una sequenza metodica che mi restituiva me bambino, me studente universitario, me uomo, me come sono adesso: vecchio. Una vita intera trascorsa in treno in un ottuso e insopportabile pendolarismo. Tra veglia e sonno cominciati in un lontanissimo passato: un passato infantile di viaggi domenicali che parevano interminabili, di sedili di doghe di legno verniciate, di risate allegre di bambini felici. Il paesaggio scorreva dentro e fuori e non sapevo mai a quale mi abbandonavo. Il paesaggio fuori scorreva via veloce, aprivo e chiudevo gli occhi con rapidità inseguendo pensieri che rincorrevano pensieri ma ne ricavavo solo immagini in movimento, un po’ come i quadri futuristi che neanche conoscevo e che avrei conosciuto poi. Poi, negli anni 70 cambiò tutto e negli anni 80 apparve la scritta “ Lauritano è bello!lo giuro!” e insieme a quella scritta sparì la campagna e i cavoli e i broccoli e i carciofi , sparì il Sarno che pure si vedeva e oggi è sparito pure il paesaggio. Oggi il treno arranca tra case e palazzoni e stazioni e stazioncine ne fermano la corsa lenta scomoda ed è sparita pure la scritta e al suo posto campeggiano le campiture colorate e fluorescenti di graffiti aggressivi il segno tangibile dell’avvenuta trasformazione e il Vesuvio lo puoi vedere bene solo da Leopardi e un poco prima di Ercolano. Così non viaggio più da un posto all’altro ma attraverso solo un’ estesa e caotica megalopoli cementizia fatta di muri e di case tra le quali corre il treno. Spesso guardo qualcuno, rifletto che, come me, si siede sempre allo stesso posto: guardo com’é vestito, le sue mani , le scarpe, probabilmente lui farà lo stesso. Guardo fuori e riprendo a correre, penso: non sono triste ma neanche allegro. Poggio la testa al finestrino e l’alito caldo appanna il vetro. Ogni cosa e illuminata dalla luce del passato… dall'interno guardo l'esterno, il cervello mi rimanda immagini e ricordi e ricordi di luoghi persone, fatti caoticamente senza una connessione tra loro. Chi dice di non pensare più al passato mente a se stesso… in questo modo io sarò sempre lungo il fianco delle vite degli altri e gli altri sempre dentro la mia vita. Il treno si affolla, un grassone si siede accanto e mi schiaccia. Lo spingo a mia volta infastidito nel frattempo la signora di fronte sbuffa: ecco, le vite degli altri dentro la mia vita! Mi concentro sulle cose, ogni cosa mi suggerisce un’idea, ogni idea dei pensieri sulle cose. A Miglio d’ Oro noto la brutta architettura, brutta d’ovunque per la verità. Il paesaggio è distrutto dalla brutta architettura. Vedo il Vesuvio ma anche la brutta architettura. Immagino un’eruzione, la signora mi urta col ginocchio, il signore grasso scende ma il posto è subito occupato da una ragazza con gli auricolari che sparano musica nelle sue orecchie a svariati decibel, perché la sento anch’io. La brutta architettura ha distrutto tutto. L’assenza di progetto ha distrutto tutto. Prima grandi spazi, oggi brutta architettura. Povertà e rifiuti. Tra Via del Monte e Sant’Antonio i rifiuti di un campo Rom diventati montagna tra poco collasseranno sul nostro treno o su tutti treni e anche il puzzo. Le cose succedono i mie pensieri pure…
Perché mi sono reso conto di
questa cosa? I pensieri e le cose, le parole e le cose. Tanto tempo fa, non mi
capacitavo del fatto che le persone non cambiassero idea. Delle volte dicevo o
scrivevo delle cose che mi sembravano molto convincenti, e trovavo
inconcepibile che le persone mantenessero la propria opinione senza fornirmi (e
soprattutto fornirsi) un’obiezione. Ma la questione è sempre di metodo:
Descartes insegna: come è possibile non darsi gli strumenti per ammettere la
possibilità di un ravvedimento? Due persone di intelligenza paragonabile, che
partono da premesse simili, non possono non giungere a una conclusione
condivisa. Quanti anni ho trascorso su questi treni sporchi e rumorosi e quante
cose ho pensato e quante cose ho dimenticato. Ho elaborato milioni di pensieri, milioni di fantasie, ma il
protagonista principale dei miei pensieri in treno a pensarci bene è stato
sempre il paesaggio e le cose e le case nel paesaggio. Sono incattivito? Forse
sì è così quarant’anni di circumvesuviana incattivirebbero anche il più buono
degli uomini e io, non sono mai stato un buono. Anzi, sicuramente è così. Vivo
meglio? Non lo so ma oggi sono più egoista. Scelgo alcune persone, quelle delle
quali – penso di essere stato fortunato a incontrare – una volta discutevo
anche per ore della stessa cosa, non capacitandomi che l’altro non si convinca
della mia idea, o non mi convinca della sua, idea. Alcune di queste persone non
ci sono più, erano le più care, succede sempre così. Poi, sempre, arriva una nuova
epifania: e in un secondo, dopo ore di discussione, si cambia discorso e non se
ne parla più, perché il fatto che uno abbia cambiato idea non è un fatto degno
di nota né tanto meno un’umiliazione. Non sono certamente una persona migliore
di un’altra, ma mi impegno nel migliorare me stesso, e non solo per gli altri.
Non ho lavorato molto su me stesso ( Dio quanto detesto questa frase!), ma ho
pensato molto a me stesso, e ogg ho affinato gli strumenti per elaborare in
fretta un necessario cambio d’opinione, ma lo stesso pretendo dagli altri. Il
paradosso sapete qual è: è che, forse
oggi, se incontrassi quel me di qualche anno fa mi starei sul cazzo.