venerdì 14 dicembre 2012

Il 14 dicembre 1946. Jane Birkin, una ragazza di 66 anni vulnerabile musa senza trucco. LAURA PUTTI



PARIGI - In questa casa vive qualcuno che ha paura della solitudine. Qualcuno che non butta via niente, neanche i ricordi più dolorosi. Chi potrebbe mai immaginare che Jane Birkin viva in una casa piena di oggetti, con pareti di damasco cremisi, con un drappeggio che pende dal soffitto del soggiorno come una tenda orientale e con decine e decine di cornici appese alle pareti o ritte sui tavoli. 

Sono foto, popolatissime e anche molto vecchie, e disegni più o meno infantili. Sono il passato ma anche il presente, uno accanto all'altro, uniti. Incredibile vedere Jane Birkin muoversi in questa scenografia un po' decadente, lei che è stata il simbolo della donna liberata, un'inglese della Swinging London e allo stesso tempo una parigina chic. Da quando nel '69 i suoi sospiri con Serge Gainsbourg in
 Je t'aime moi non plus hanno eccitato il mondo, ma anche da quando Antonioni la spogliò in Blow up (era il '66), Birkin si è trovata incollata addosso un'etichetta di libertà che in realtà non le si addice. 

Proprio come le etichette delle organizzazioni umanitarie da lei incollate sul suo strapazzato "sac Birkin" non si addicono alla borsa che Hermes le dedicò nell'84, oggetto di culto come la più famosa "Kelly". Ma in una vita piena di tre figlie, quattro compagni, una quindicina di dischi, sei spettacoli teatrali, più di cinquanta film come attrice e due come regista, c'è posto anche per un simbolo del lusso assoluto, purché indossato con quel suo disarmante sorriso: gli occhi che si fanno sottilissimi e la bocca che si spalanca e sembra occuparle il viso intero. Jane Birkin è ancora bellissima.
 

I suoi sessantasei anni senza trucco sono infilati in un paio di pantaloni verde militare e in un golfino marrone di cachemire, sottile come una pashmina. Con quel suo corpo androgino, eppure straordinariamente femminile, si muove come un ragazzo: ha una falcata lunga e un incedere chiassoso, tutt'altro che leggero. Si precipita in cucina, afferra due piatti di orzo bollito decorati da un filo d'olio e, offertone uno, si siede sulla moquette e, su un tavolo basso, mangia il suo. Sul divano è spalmata Dora, sua ombra da anni, un enorme bulldog le cui flatulenze saranno stemperate da una serie di candele profumate accese alla bisogna.
 

"Tutti i bulldog fanno così", si scusa Birkin, prima di liberare un fiume di parole con gli argomenti infilati uno nell'altro, e per questo scelti da lei, da lei sola, ma va benissimo: ascoltarla è un incanto e da quel suo "stream of consciousness" vengono a galla elementi che la definiscono come è oggi, con pochissime cose di ieri e con molto passato remoto.
 

È come se la morte di sua madre, nel 2004, avesse rafforzato un sentimento di abbandono. Dopo la scomparsa di suo padre e di Serge Gainsbourg, entrambe nel '91 a pochi giorni l'una dall'altra; dopo quella, dieci anni dopo, dell'adorato nipote poeta Anno (figlio del fratello Andrew) a vent'anni in un incidente stradale a Milano; dopo la fine delle storie con i suoi quattro compagni (il compositore John Barry, Serge Gainsbourg, il regista Jacques Doillon e il giornalista scrittore Olivier Rolin); ma soprattutto allo scadere del tempo biologico massimo per fare figli, Jane Birkin ha tirato il freno a mano.
 

E ha scritto la sceneggiatura di un film. La storia della vita di una donna tra i quarantacinque e i cinquant'anni, con i personaggi che la hanno popolata. Quelli del presente (le figlie) e quelli del passato (tutti gli altri). Non una finzione "liberamente ispirata a": proprio la sua storia, anche se con i nomi cambiati.
 

Ci ha messo dieci anni, ma l'ha fatto, il suo film. Si intitola
 Boxes, scatole, e sarà presentato al prossimo Festival di Cannes (16-27 maggio) in una sezione speciale dedicata alle celebrazioni dei sessant'anni della rassegna. "Volevo fare un film sulla crisi di una donna che vive un momento terribile: a che cosa servirò ora che non posso più avere figli? che cosa accadrà? avrò diritto a un ultimo amore? o sarò solo un ricordo? qualcuno avrà ancora voglia di baciarmi?", dice. 

Altra sorpresa: il femminismo è lontano dalla sfera umana di Jane Birkin. Essere stata la musa di tanti e, per scaduti termini di età, non poterlo più essere come un tempo: sarà questo il problema? Molte le personalità forti nella sua vita. Prima di tutto il padre, che nel film ha la magnifica presenza di Michel Piccoli. "Era un uomo straordinario, impeccabile. Da bambina mi portava alle manifestazioni contro la pena di morte. A sedici anni mi ha iscritto ad Amnesty International. Era contro la prigione. Andava a vedere Tom Bell (famoso sindacalista comunista scozzese) incarcerato dopo un comizio e diceva a sua madre: non si preoccupi signora, suo figlio non andrà in prigione, mi farò garante per lui. E io ero bambina e sentivo i topi sul tetto di madame Bell e vedevo cadaveri arrivare su barelle a rotelle, perché Madame Bell aggiustava i morti...".
 

Ma suo padre non era militare durante la Seconda guerra mondiale? "Era diventato una spia al servizio della Gran Bretagna. La mia madrina è Sarah Churchill. Poi, però, dopo la guerra ha continuato a combattere contro il sistema carcerario, fino alla fine. Ho avuto una grande fortuna: non ho dovuto cercarlo lontano il mio ideale di uomo. E tutti i miei compagni hanno subito capito che dovevano amare mio padre. La sera Serge e papà prendevano insieme il loro sonnifero, il loro era un rapporto affascinante anche da vedere".
 

In
 Boxes c'è anche sua madre, interpretata da Geraldine Chaplin, ci sono le sue tre figlie (e Lou Doillon, l'ultima, è nel ruolo di Charlotte, la seconda), i suoi tre compagni (il film è stato scritto quando Jane Birkin era ancora con Rolin, ndr). E c'è lei. Nella parte di se stessa. "Non avrei voluto interpretarmi, questo è certo. Ma ho ricevuto ben tre dinieghi. Uno da parte di Geraldine Chaplin. Giravamo un film a Cuba quando le ho dato la sceneggiatura. Mi ha detto: 'Non posso farlo, sullo schermo appaio più vecchia che nella realtà. Non ti farei un favore. Sei tu che devi fare te stessa'. E così Geraldine ha deciso di fare mia madre". 

Jane-Anna si muove in una antica splendida casa. Sembra la casa delle fate ed è proprio la sua. Il rifugio di Jane Birkin in Bretagna, vicino al Finistere. La casa è ingombra di scatole dalle quali escono ricordi e dalle quali fanno capolino i morti e i vivi. "Quando mia sorella ha visto il film mi ha mandato un sms: ringrazia Michel Piccoli e Geraldine Chaplin, perché pensavamo di essere orfani e non lo siamo". È madre e figlia allo stesso tempo, lei che è diventata nonna a quarant'anni e che oggi ha quattro nipoti insiste nel guardarsi alle spalle. Di Gainsbourg parla poco, perché negli ultimi tempi - con
 Arabesque, il disco nel quale rivisitava le sue canzoni con un orchestra arabo-andalusa - lo ha molto cantato e in tutto il mondo. Se ne è riappropriata, lei che lo aveva lasciato nel 1981 per esasperazione (e per Jacques Doillon). 

Però una volta lo nomina. Quando racconta di aver portato in Russia il concerto di
 Arabesque e di aver parlato della Cecenia: in un'intervista radiofonica e prima dello spettacolo. "Dovevo andarci, in Russia, anche se sapevo che dopo i fatti della Cecenia per me sarebbe stato impossibile tacere. Dovevo farlo perché da lì veniva la famiglia di Serge". 

La sua passione è oggi tutta nell'impegno sociale: è stata in Bosnia durante la guerra, in Birmania per sostenere la lotta silenziosa di Aun San Suu Kyi, ha cantato a Ramallah e anche in Ruanda durante il genocidio. "È un grande privilegio per me poter arrivare in questi luoghi. Vado con quello che so fare. Posso andare con un solo musicista o anche cantare a cappella in mezzo alla strada. È necessario che io vada, certe cose non si possono dire per lettera, né per telefono e allora divento un messaggero. Posso cantare per la strada, davanti all'università, nelle prigioni, e in questo modo dire alla gente: siamo con voi, pensiamo a voi. Se la vita non mi avesse portata altrove avrei potuto fare l'infermiera e restare lì. Ora invece l'unica cosa che posso fare è tornare qui e parlare a tutti quelli che conosco di chi soffre e delle cose che ho visto".
 

Il suo primo ruolo cinematografico è stato nel 1965 in
 The knack (Palma d'Oro a Cannes) di Richard Lester, regista simbolo della Swinging London. Lei avrebbe potuto diventare una delle divine creature del movimento. Perché si è sottratta? "Non l'ho fatto apposta. La vita è una serie di traiettorie inattese, imprevedibili. Mio marito John Barry era partito in America. Avevo vent'anni, avevo già avuto Kate ed ero molto triste. Sono tornata a vivere con i miei genitori, ma mi pesava. Allora ho accettato di fare un provino per un film. A Parigi. Così ho conosciuto Serge e non sono più tornata". 

Ma prima ancora c'era stato
 Blow up. "Doveva essere solo una comparsa, ma quel film ha segnato la mia carriera. Antonioni è stato di una estrema delicatezza con me e ha sempre seguito la mia carriera. Che grazia, che onestà, che pazienza. Ricordo il provino per Blow up: qualcuno mi chiede di scrivere il mio nome su un muro. Lo scrivo piccolissimo. Mi urlano: più grande! Alla terza lettera ti giri di profilo. JAN, profilo, E B e qualcuno urla ancora: perché fai così? Mi hanno detto di fare così, rispondo. Dice: scrivi forse il tuo nome così grande per attirare l'attenzione su di te? Allora scoppio a piangere farfugliando: mi hanno chiesto di scriverlo grande. E sento: cut! Allora Antonioni è venuto verso di me. 'Questo volevo sapere: se lei era vulnerabile. Ora le do tre pagine da leggere, ma ci pensi bene perché nel film dovrà essere completamente nuda'. Sono tornata a casa e ho raccontato tutto a John. 'Se proprio ti devi spogliare, un film di Antonioni è quello per cui vale la pena farlo', mi ha detto. Ma ha aggiunto: 'E comunque so che non lo farai mai. Perfino quando ti spogli a casa spegni sempre la luce'. Merde! Mi sono detta. Lo farò". 

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