A New York una casa del genere la
potevi solo immaginare. Ero al centro della città ma dalla villa il caos e il
disordine mi arrivavano attutiti e distanti. Avevo avuto quel posto grazie alle
conoscenze del mio amico Gary, io, come lui, non sarei riuscito a vivere negli
angusti budelli dei Quartieri Spagnoli.
Mi ero ripromesso di stare in disparte rispetto al parlarsi addosso di
questa città. Chi ero io poi per poterne parlare: un estraneo, un visitatore
occasionale, un alieno. Aggiungere una parola più intelligente o più stupida a
tutto quel mare di merda che ci inonda in questi giorni la consideravo un’
impresa improba, ma soprattutto inutile. Due anni erano troppo pochi anche per
chi- come me- aveva cercato di prendere il meglio da questa città.
Avevo scattato centinaia di foto
con la mia vecchia Zeiss Ikon Super Reflex, cercavo il luogo dove avrei potuto
rendere possibile il sogno di molta della gente che freneticamente si muoveva
in uno spazio sempre più difficile da sopportare, sempre più sporco, sempre più
fetido, sempre più violento. Certi giorni mi sentivo come Travis Bickle,
veterano del Vietnam in congedo, nel film di Scorzese, che soffre d'insonnia e
decide di impegnare le proprie notti facendo il tassista solo che io non
guidavo ma giravo come una trottola da club a club sempre più ubriaco di Jack
Daniel’s. Non ne potevo più. Non pensavo che sarebbe stato così duro vivere qui
e non pensavo che sarebbe stata così insopportabile la mia andropausa, vedere
il mio corpo trasformarsi: certe mattine mi mettevo nudo davanti allo specchio
ed osservavo il cedimento lento ed inesorabile: la diminuzione della massa
muscolare delle cosce e dei glutei, la
perdita di capelli e di peli, l’addome floscio, i pettorali cascanti per non
parlare del resto poi.
Avevo provato di tutto. Dallo
yoga, alla meditazione, dal rosario al mantra, dall’impegno ambientale a quello
culturale, forse stavo impazzendo, forse ero già pazzo, ma io quando uscivo per
strada facevo pensieri terribili e così quando stavo su una spiaggia affollata
o in un asfissiante e maleodorante vagone della ferrovia locale tra ritardi e
soppressione di treni: avrei voluto un mitra e fare piazza pulita di tutta
l’umanità che mi stava intorno. Non funzionava più nulla. Lo dissi anche al
medico un giorno. Gli dissi dei miei pensieri negativi e lui senza neanche
guardarmi in faccia mi disse che era perché non facevo più palestra e del fatto
che gli ormoni stessero diminuendo “:perché
non ritorna negli Stati Uniti? Si prenda
una vacanza e queste pillole tanto qui in Italia le cose funzionano così si
faccia la scorza”. Avrei voluto mitragliare anche lui. Uscii mogio e andai
in farmacia a comprare le pillole che mi prescrisse per farmi drizzare un po’
l’uccello: quattro pilloline rosa chiaro 40 euro, pensavo in un effetto
miracoloso ma è sempre il cervello che fa tutto e l’effetto fu più che
mediocre. Volevo solo ciò che io sentivo vivamente come necessario nell’attuale
situazione di sconvolgimenti, senza stare a guardare se dal mio lavoro sarebbe
scaturita una cultura o un’accelerazione del declino. Solo accelerandolo, solo
vivendolo integralmente e fino in fondo in tutte le sue conseguenze potevo in
qualche modo controllare quel delirio di nichilismo che ormai avvolgeva ogni
cosa. I miei scatti volevano solo essere il tentativo di fermare il mondo prima che questo fosse inghiottito dal
vortice in cui tutto stava ormai precipitando.
Mi stavo chiudendo sempre di più in me stesso
e sempre di più cresceva in me una claustrofobica discesa nel baratro della
rabbia e dell’insofferenza. Avrei voluto dare corpo ai sogni di questa città,
ma erano poi i sogni di Partenope o era il mio personale sogno? Facendo saltare
in aria tutta la città in una enorme esplosione, cancellarla dalla faccia della
terra sulle note di I'm a passenger
bruciando rimbaudianamente la stagione all'inferno e in questa ricerca avevo
scelto un luogo simbolico, quello al quale Tonino ogni notte faceva da
metronotte: il MADRE. Mi immaginavo una grande esplosione come quella di Zabriskie Point a rallentatore: gli
oggetti in mille pezzi, le foto i quadri le sculture e la musica che andava
come in un enorme videoclip. Lo avevo
fotografato mille volte quello spazio e ora me lo guardavo. Le lastre delle
pareti in marmo rossastro e in onice rilucente, il grande cortile interno dove
si allestivano mostre ed eventi, le pareti bianche che si distendevano sotto la
copertura piatta e come sospesa, diventavano delle astratte superfici
espressive. Il gioco dei riflessi di luce sulle pietre levigate, sulle superfici
metalliche, sui pilastri di acciaio cromato si riversava su due bacini d'acqua
orizzontali. Lo spazio interno e quello esterno si compenetravano
armonicamente. Le ampie finestre che si aprivano sul pavimento maiolicato del
chiostro sembravano opere d’arte autonome, forse le più belle, oppure da quelle
stesse dalle quali i muri sbrecciati e gli antichi intonaci gareggiavano in
superiorità, con le opere misere di land
art che le sale esponevano nell’indifferenza di tutti. Il ritmo superiore di questi spazi di luce
ordinati con lucida razionalità inducevano alla meditazione. I danzatori si
muovevano come automi, sembravano estatici dervisci rotanti in
quell'architettura liberata da ogni finalità utilitaristica. I loro abiti neri
si armonizzavano con quella scena: era lo spazio visivo di una ritmica
ossessiva. Era la scena dove avrei fatto avvenire l'esplosione. Quello spazio
deputato all' arte contemporanea doveva sparire per sempre dalla faccia della
terra, perché quei giochi di potere estetico erano assolutamente inconsistenti
e non avevano più alcun valore, erano fasulli e servivano solo per conservare
un controllo su uomini e cose da parte di imbonitori e mistificatori che sotto
il termine arte riuscivano a perpetrare solo una grande truffa, una grande bolla che si
gonfiava di niente facendo girare vorticosamente migliaia di dollari e milioni
di euro. Riflettevo da tempo su questo, volevo capire se era solo un mio
problema o un problema reale. Ero arrivato alla conclusione che fosse un
problema reale. Una frenesia consumistica che esisteva e che io non condividevo
affatto. Vedevo una volontà di macinare delle cose, di non viverle, di non
sperimentarle e penso che quello dei giovani fosse diventato un incubo un
problema che penalizzava loro in primis oltre che creare una grande confusione.
Così ero arrivato alla soluzione estrema: questa tendenza che tutto dovesse
essere subito fatto e bruciato finiva col
distruggere opere di artisti che, se lasciate in condizione di crescere,
avrebbero potuto forse lasciare un segno più profondo e forse più durevole,
benché non credessi più in un’arte che andasse oltre il proprio tempo. In un
primo momento avevo avvertito un forte bisogno di rallentare tutto, poi era
subentrata sempre più forte il desiderio di cancellarlo radicalmente. In questo bisogno sentivo urgente la
necessità di smascherare il ruolo mistificante giocato dai musei, che invece di
legittimare gli artisti e di consacrarli tali, erano diventati una fabbrica di
talent scout usa e getta o di personaggi che alle spalle avevano grandi major
della finanza internazionale e che appendevano cavalli impagliati ai soffitti o
teste di mucche sanguinanti coperte di mosche in sale asettiche e
obitoriali. Il luogo dove il dover fare
notizia a tutti i costi credo che fosse già un fatto di per sé disdicevole per
il mondo dello spettacolo inammissibile per il mondo dell’arte.
Il museo si trovava nel palazzo Donnaregina in
un contesto seicentesco di eccezionale bellezza, ma tutto questo ormai era
stato consegnato nelle mani di politicanti affaristi e il destino di questa
città era irrimediabilmente segnato. Ho passato anni a cercare una ragione a
tutto questo: dopo la morte di Lucio Amelio il fervore creativo che
attraversava questa città si era appiattito su mesti rituali prodotti e
sponsorizzati dai politici di turno e così, mentre la città e le sue periferie
veniva ingoiata dalla monnezza camorristi e assessori presentavano eventi
culturali alla faccia di qualsiasi decenza .
Da Franco Cuomo, Quando gli angeli scappano via, Romanzo,
Photocity edizioni.
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