lunedì 6 luglio 2015

A New York una casa del genere la potevi solo immaginare


A New York una casa del genere la potevi solo immaginare. Ero al centro della città ma dalla villa il caos e il disordine mi arrivavano attutiti e distanti. Avevo avuto quel posto grazie alle conoscenze del mio amico Gary, io, come lui, non sarei riuscito a vivere negli angusti budelli dei Quartieri Spagnoli.   Mi ero ripromesso di stare in disparte rispetto al parlarsi addosso di questa città. Chi ero io poi per poterne parlare: un estraneo, un visitatore occasionale, un alieno. Aggiungere una parola più intelligente o più stupida a tutto quel mare di merda che ci inonda in questi giorni la consideravo un’ impresa improba, ma soprattutto inutile. Due anni erano troppo pochi anche per chi- come me- aveva cercato di prendere il meglio da questa città.
Avevo scattato centinaia di foto con la mia vecchia Zeiss Ikon Super Reflex, cercavo il luogo dove avrei potuto rendere possibile il sogno di molta della gente che freneticamente si muoveva in uno spazio sempre più difficile da sopportare, sempre più sporco, sempre più fetido, sempre più violento. Certi giorni mi sentivo come Travis Bickle, veterano del Vietnam in congedo, nel film di Scorzese, che soffre d'insonnia e decide di impegnare le proprie notti facendo il tassista solo che io non guidavo ma giravo come una trottola da club a club sempre più ubriaco di Jack Daniel’s. Non ne potevo più. Non pensavo che sarebbe stato così duro vivere qui e non pensavo che sarebbe stata così insopportabile la mia andropausa, vedere il mio corpo trasformarsi: certe mattine mi mettevo nudo davanti allo specchio ed osservavo il cedimento lento ed inesorabile: la diminuzione della massa muscolare delle cosce e dei glutei,  la perdita di capelli e di peli, l’addome floscio, i pettorali cascanti per non parlare del resto poi.
Avevo provato di tutto. Dallo yoga, alla meditazione, dal rosario al mantra, dall’impegno ambientale a quello culturale, forse stavo impazzendo, forse ero già pazzo, ma io quando uscivo per strada facevo pensieri terribili e così quando stavo su una spiaggia affollata o in un asfissiante e maleodorante vagone della ferrovia locale tra ritardi e soppressione di treni: avrei voluto un mitra e fare piazza pulita di tutta l’umanità che mi stava intorno. Non funzionava più nulla. Lo dissi anche al medico un giorno. Gli dissi dei miei pensieri negativi e lui senza neanche guardarmi in faccia mi disse che era perché non facevo più palestra e del fatto che gli ormoni stessero diminuendo “:perché non ritorna negli Stati Uniti? Si  prenda una vacanza e queste pillole tanto qui in Italia le cose funzionano così si faccia la scorza”. Avrei voluto mitragliare anche lui. Uscii mogio e andai in farmacia a comprare le pillole che mi prescrisse per farmi drizzare un po’ l’uccello: quattro pilloline rosa chiaro 40 euro, pensavo in un effetto miracoloso ma è sempre il cervello che fa tutto e l’effetto fu più che mediocre. Volevo solo ciò che io sentivo vivamente come necessario nell’attuale situazione di sconvolgimenti, senza stare a guardare se dal mio lavoro sarebbe scaturita una cultura o un’accelerazione del declino. Solo accelerandolo, solo vivendolo integralmente e fino in fondo in tutte le sue conseguenze potevo in qualche modo controllare quel delirio di nichilismo che ormai avvolgeva ogni cosa. I miei scatti volevano solo essere il tentativo di fermare il mondo  prima che questo fosse inghiottito dal vortice in cui tutto stava ormai precipitando.
 Mi stavo chiudendo sempre di più in me stesso e sempre di più cresceva in me una claustrofobica discesa nel baratro della rabbia e dell’insofferenza. Avrei voluto dare corpo ai sogni di questa città, ma erano poi i sogni di Partenope o era il mio personale sogno? Facendo saltare in aria tutta la città in una enorme esplosione, cancellarla dalla faccia della terra sulle note di I'm a passenger bruciando rimbaudianamente la stagione all'inferno e in questa ricerca avevo scelto un luogo simbolico, quello al quale Tonino ogni notte faceva da metronotte: il MADRE. Mi immaginavo una grande esplosione come quella di Zabriskie Point a rallentatore: gli oggetti in mille pezzi, le foto i quadri le sculture e la musica che andava come in un enorme videoclip.  Lo avevo fotografato mille volte quello spazio e ora me lo guardavo. Le lastre delle pareti in marmo rossastro e in onice rilucente, il grande cortile interno dove si allestivano mostre ed eventi, le pareti bianche che si distendevano sotto la copertura piatta e come sospesa, diventavano delle astratte superfici espressive. Il gioco dei riflessi di luce sulle pietre levigate, sulle superfici metalliche, sui pilastri di acciaio cromato si riversava su due bacini d'acqua orizzontali. Lo spazio interno e quello esterno si compenetravano armonicamente. Le ampie finestre che si aprivano sul pavimento maiolicato del chiostro sembravano opere d’arte autonome, forse le più belle, oppure da quelle stesse dalle quali i muri sbrecciati e gli antichi intonaci gareggiavano in superiorità, con le opere misere di land art che le sale esponevano nell’indifferenza di tutti.  Il ritmo superiore di questi spazi di luce ordinati con lucida razionalità inducevano alla meditazione. I danzatori si muovevano come automi, sembravano estatici dervisci rotanti in quell'architettura liberata da ogni finalità utilitaristica. I loro abiti neri si armonizzavano con quella scena: era lo spazio visivo di una ritmica ossessiva. Era la scena dove avrei fatto avvenire l'esplosione. Quello spazio deputato all' arte contemporanea doveva sparire per sempre dalla faccia della terra, perché quei giochi di potere estetico erano assolutamente inconsistenti e non avevano più alcun valore, erano fasulli e servivano solo per conservare un controllo su uomini e cose da parte di imbonitori e mistificatori che sotto il termine arte riuscivano a perpetrare solo una  grande truffa, una grande bolla che si gonfiava di niente facendo girare vorticosamente migliaia di dollari e milioni di euro. Riflettevo da tempo su questo, volevo capire se era solo un mio problema o un problema reale. Ero arrivato alla conclusione che fosse un problema reale. Una frenesia consumistica che esisteva e che io non condividevo affatto. Vedevo una volontà di macinare delle cose, di non viverle, di non sperimentarle e penso che quello dei giovani fosse diventato un incubo un problema che penalizzava loro in primis oltre che creare una grande confusione. Così ero arrivato alla soluzione estrema: questa tendenza che tutto dovesse essere subito fatto e bruciato finiva col  distruggere opere di artisti che, se lasciate in condizione di crescere, avrebbero potuto forse lasciare un segno più profondo e forse più durevole, benché non credessi più in un’arte che andasse oltre il proprio tempo. In un primo momento avevo avvertito un forte bisogno di rallentare tutto, poi era subentrata sempre più forte il desiderio di cancellarlo radicalmente.  In questo bisogno sentivo urgente la necessità di smascherare il ruolo mistificante giocato dai musei, che invece di legittimare gli artisti e di consacrarli tali, erano diventati una fabbrica di talent scout usa e getta o di personaggi che alle spalle avevano grandi major della finanza internazionale e che appendevano cavalli impagliati ai soffitti o teste di mucche sanguinanti coperte di mosche in sale asettiche e obitoriali.  Il luogo dove il dover fare notizia a tutti i costi credo che fosse già un fatto di per sé disdicevole per il mondo dello spettacolo inammissibile per il mondo dell’arte.
 Il museo si trovava nel palazzo Donnaregina in un contesto seicentesco di eccezionale bellezza, ma tutto questo ormai era stato consegnato nelle mani di politicanti affaristi e il destino di questa città era irrimediabilmente segnato. Ho passato anni a cercare una ragione a tutto questo: dopo la morte di Lucio Amelio il fervore creativo che attraversava questa città si era appiattito su mesti rituali prodotti e sponsorizzati dai politici di turno e così, mentre la città e le sue periferie veniva ingoiata dalla monnezza camorristi e assessori presentavano eventi culturali alla faccia di qualsiasi decenza .


Da Franco Cuomo, Quando gli angeli scappano via, Romanzo, Photocity edizioni.



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