venerdì 27 novembre 2020

Commenti in margine ad un post del prof. Alberto Abruzzese. Se riflettessimo tutti un po' di più, forse potremmo vivere meglio anche questo incubo.


 
Alberto Abruzzese

Questo è l'orizzonte né distopico né utopico del tempo presente, se questa la definizione di "distopìa, o anche anti-utopia, contro-utopia, utopia negativa o cacotopia, descrizione o rappresentazione di una realtà immaginaria del futuro, ma prevedibile sulla base di tendenze del presente percepite come altamente negative, in cui viene presagita un'esperienza di vita indesiderabile o spaventosa". Tutta questa macchineria dell'immaginario sta svanendo in una sua totale elisione, rivelandosi nello stato di eccezione del tempo presente: la natura escusiva del desiderio di sopravvivenza della singola persona - quale sia ogni suo regime o ogni sua condizione di potere e violenza o subordinazione e dolore - è proprio il contenuto reale di chi nega la realtà della pandemia.

Io credo che la leggerezza di fronte a tutto questo, sia la reazione più sana della risposta della vita a tutti i racconti sia che vengano fatti  dai media che della realtà pandemica. Noi abbiamo paura della morte da quando veniamo al mondo, anzi è essa è graduale con il suo avvicinarsi alla consapevolezza che prima o poi ce ne andiamo. C'è chi ce l'ha di più e chi meno, ma nonostante questo continuiamo a vivere; se non fosse stato cosi dalla notte dei tempi, non avremmo avuto niente, né storia, né arte, né religione! C'è la pandemia OK! Può toccare a me, o a un altro, ma prima o poi doveva succedere e allora meglio non pensarci ossessivamente. Ravviso nella insopportabile seguenza di enumerazioni  dei morti- che in buona parte sono tutti di una certa età, come è naturale che sia- ( ho scritto in buona parte e non tutti, altrimenti mi danno del negazionista subito, ma muoiono anche i giovani, e anche questo è naturale, è sempre successo: "o viecchio adda murì, o giovane po' murì", dicevano gli antichi saggi) . Una sorta di stupida convizione a monte, sorretta dal delirio scientista di giornalisti agitati e di giornaliste rifatte, come se noi fossimo stati sempre immortali e fossimo stati attaccati da alieni che vogliono sottrarci l'immortalità, ma soprattutto che noi "immortali" abbiamo dalla nostra parte LA SCIENZA , ovvero il sapere dei saperi, la presunzione di uno scientismo già di per sé sciocco e per giunta messo in discussione già un secolo e mezzo fa. E allora meno male che esiste ancora in qualcuno un po' di leggerezza e di fatalismo. Già, il FATO sembra una parola antichissima e fuori moda, ma forse le dovremmo praticare di più le parole antiche. La divinità romana del Destino, che raggruppa idealmente le Moire, le Parche e le Sibille. Il suo nome deriva dal latino «fari», parlare, indicando l'ineluttabilità della parola divina, nessuna SCIENZA può combatterere o opporsi al FATO. È una divinità superiore agli dèi stessi, alla quale nessuno può sfuggire e disubbidire. Gli stessi dèi altri non erano che dei semplici collaboratori del Fato e nulla potevano fare per cambiarne le decisioni. I Greci personificarono il Fato, nelle Moire. I Romani nelle None e Decume. I Greci e i Romani sapevano anche ridere delle catastrofi, noi, con tutta la nostra SCIENZA sappiamo solo enumerare i morti e illuderci di essere immortali aspettando cure e vaccini come se questi potessero farci vivere per sempre. E' la stessa deformazione perversa che sta alla base del lifting per sembrare eternamente giovani, ma alla fine sembrare solo maschere macabri.

Interessante il tuo commento, ogni epoca - e ogni diversa sua identità umana al suo interno e dunque comunque condizionata dallo spirito del tempo - ha costruito una perticolare forma di rappresentazione della morte modificandone le tradizioni di lunghissima durata: dal mondo sacro e mitologico a quello religioso a quello artistico e politico a quello illuminista a quello romantico a quello popolare etc sino alla dimensione del mercato e dei consumi... Penso tuttavia che in profondità l'animale uomo abbia sempre temuto la morte: morte della propria carne e morte della propria vita (affetti, proprietà, famiglia, lavoro, potere, privilegio, sicurezza etc.) E il rischio di soccombere alla forza mortifera che lo insidia, il rischio di perdere la vita e la paura che si impossessa di lui, determina la disponibilità della persona a produrre la morte dell'altro da sé sia questo essere umano, società nemica o la vita della stessa natura, o il mutamento in ostilità del propro ambiente. Dunque la rappresentazione della morte finisce per essere il dispositivo primario della sua stessa inestirpabile paura della morte anche quando si traveste in nobilitazione religiosa, etica o estetica ...

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