“Resto comunque perplesso, oggi, dinanzi a
cotanta lettura. Rileggendolo ormai istintivamente attraverso lo sguardo
foucaultiano, viene da chiedersi se sia possibile sfuggire agli apparati che
negano il linguaggio... O se forse non sia proprio il dispositivo del
linguaggio ad averci condotto fin qui”.
E’
il commento che è stato fatto alla mia letterina filosofica dal titolo “ E’ il
pensiero che compie e non il fare”. Naturalmente è un commento molto pertinente
che fa un riferimento filosofico ben preciso e sarò lieto di rispondere. Per mia scelta, in rete cerco di utilizzare
una forma espressiva più “accessibile” e, in questo caso, proprio perché l’oggetto
è il linguaggio potrebbe sembrare che proprio per quello che ho scritto nella “letterina”
precedente, io mi starei contraddicendo perché utilizzerei una forma
semplice per la risposta. In realtà non è così. E’ proprio attraverso “lo sguardo foucoultiano”, che noi dovremmo
usare il linguaggio e non per sfuggire agli apparati ( tecnologici, ideologici,
politici o economici), ma per opporvi una resistenza ragionata, pensata, “agita”, per usare il termine
heideggeriano. Il potere foucoultiano, diverso dal Moloch dei francofortesi per
esempio, per sua natura parla ogni linguaggio, perché il potere per Foucault è
fondamentalmente relazione[1]. Non esiste in sé ma solo
nei linguaggi che esso fa parlare, ovvero nelle relazioni che istituisce, va da
sé che un linguaggio che chiamerò per comodità “di resistenza” sarà certamente diverso dal
linguaggio degli apparati, nella misura in cui esso riesce ad agire veramente
un pensiero articolato e concettualmente complesso, ovvero, non banale, non
artificiale, non semplicemente tecnico, perché il potere in realtà non esiste,
ma esiste invece tutta, più o meno organizzata piramidalmente, serie di
relazioni che interagiscono, quindi è sempre presente ma nello stesso tempo
costituisce o determina pure ciò che si tenta di opporgli, ma, culturalmente,
con un senso completamente diversificato, con questo voglio dire che allora è
necessario avanzare verso un’analitica dei linguaggi, piuttosto che verso una “teoria
del potere”, perché la tua riflessione sembrerebbe andare in quella direzione;
e cosa dovrebbe rappresentare o verificare questa analitica? Anzitutto una
serie di negazioni, ovvero cosa non dovrebbe essere il potere ( per la
precisione Foucault dice cosa non è ): il potere non dovrebbe essere un insieme
di istituzioni, non dovrebbe essere un particolare tipo di assoggettamento o di
dominazione, non dovrebbe essere una struttura ( carceraria, manicomiale,
sanitaria), né una potenza economica o politica, né un sistema che produce
informazione. Il vero potere invece si produce in ogni istante, in ogni punto
in ogni relazione fra un punto e un altro, esso viene da ogni parte laddove si riattivano
dei “dispositivi” di saperi locali. E’ questa liberazione dei saperi locali e
la riscoperta meticolosa delle lotte e degli scontri, la “crescita e l’insurrezione di linguaggi assoggettati”[2]
che potrà agire contro l’effetto inibitore delle teorie totalitarie globali,
contro quei saperi confezionati che non
definiscono relazioni ma solo soggezioni o- come dice lui- assoggettamenti, in
questo modo, si creerà un nuovo potere, ovvero la capacità di attivare dei
processi relazionali: è in pratica quello che è successo negli anni ’70: dei
saperi liberati, hanno creato nuove istanze linguistiche che sono sfociate
nelle lotte per i diritti dei carcerati, per l’abolizione dei manicomi, per l’affermazione
dei diritti dei neri, degli omosessuali,
per quelli delle donne e oggi per la salvezza della natura e per il nostro
ambiente o, per la conquista di un’identità linguistica diversa da quella
proposta dai media o dalla tecnologia. Oggi la vera battaglia è unicamente
questa ovvero: quella dei saperi locali contro gli effetti di potere del
discorso globale riplobematizzando una serie di discorsi che apparentemente sembrano
già conclusi e completi, ma che in realtà assoggettano creando dipendenza, ma
soprattutto – ed è quello che sostengo da tempo – aprire all’interno di questi
discorsi delle faglie, dei punti di rottura che producano lo scontro e dunque
la nascita di un nuovo potere più consapevole di chi invece crede passivamente
di non averne più. E’ la messa in pratica dei linguaggi della trasversalità:
trasversali al linguaggio dei media, della politica, dell’economia, della
morale che possano ridare dignità al silenzio rabbiosamente estraneo di chi è
stato reso ed è tuttora muto.
[1] Michel
Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli,
1978,p.84;
[2] Michel Foucault,
Microfisica del potere,Einaudi,
1979,pp139 e segg;
Nessun commento:
Posta un commento