martedì 19 dicembre 2017

la crescita e l’insurrezione dei linguaggi assoggettati


Resto comunque perplesso, oggi, dinanzi a cotanta lettura. Rileggendolo ormai istintivamente attraverso lo sguardo foucaultiano, viene da chiedersi se sia possibile sfuggire agli apparati che negano il linguaggio... O se forse non sia proprio il dispositivo del linguaggio ad averci condotto fin qui”.


E’ il commento che è stato fatto alla mia letterina filosofica dal titolo “ E’ il pensiero che compie e non il fare”. Naturalmente è un commento molto pertinente che fa un riferimento filosofico ben preciso e sarò lieto di rispondere. Per mia scelta, in rete cerco di utilizzare una forma espressiva più “accessibile” e, in questo caso, proprio perché l’oggetto è il linguaggio potrebbe sembrare che proprio per quello che ho scritto nella “letterina” precedente, io mi starei contraddicendo perché utilizzerei una forma semplice per la risposta. In realtà non è così. E’ proprio attraverso “lo sguardo foucoultiano”, che noi dovremmo usare il linguaggio e non per sfuggire agli apparati ( tecnologici, ideologici, politici o economici), ma per opporvi una resistenza ragionata, pensata, “agita”, per usare il termine heideggeriano. Il potere foucoultiano, diverso dal Moloch dei francofortesi per esempio, per sua natura parla ogni linguaggio, perché il potere per Foucault è fondamentalmente relazione[1]. Non esiste in sé ma solo nei linguaggi che esso fa parlare, ovvero nelle relazioni che istituisce, va da sé che un linguaggio che chiamerò per comodità  “di resistenza” sarà certamente diverso dal linguaggio degli apparati, nella misura in cui esso riesce ad agire veramente un pensiero articolato e concettualmente complesso, ovvero, non banale, non artificiale, non semplicemente tecnico, perché il potere in realtà non esiste, ma esiste invece tutta, più o meno organizzata piramidalmente, serie di relazioni che interagiscono, quindi è sempre presente ma nello stesso tempo costituisce o determina pure ciò che si tenta di opporgli, ma, culturalmente, con un senso completamente diversificato, con questo voglio dire che allora è necessario avanzare verso un’analitica dei linguaggi, piuttosto che verso una “teoria del potere”, perché la tua riflessione sembrerebbe andare in quella direzione; e cosa dovrebbe rappresentare o verificare questa analitica? Anzitutto una serie di negazioni, ovvero cosa non dovrebbe essere il potere ( per la precisione Foucault dice cosa non è ): il potere non dovrebbe essere un insieme di istituzioni, non dovrebbe essere un particolare tipo di assoggettamento o di dominazione, non dovrebbe essere una struttura ( carceraria, manicomiale, sanitaria), né una potenza economica o politica, né un sistema che produce informazione. Il vero potere invece si produce in ogni istante, in ogni punto in ogni relazione fra un punto e un altro, esso viene da ogni parte laddove si riattivano dei “dispositivi” di saperi locali. E’ questa liberazione dei saperi locali e la riscoperta meticolosa delle lotte e degli scontri, la “crescita e l’insurrezione di   linguaggi assoggettati”[2] che potrà agire contro l’effetto inibitore delle teorie totalitarie globali, contro  quei saperi confezionati che non definiscono relazioni ma solo soggezioni o- come dice lui- assoggettamenti, in questo modo, si creerà un nuovo potere, ovvero la capacità di attivare dei processi relazionali: è in pratica quello che è successo negli anni ’70: dei saperi liberati, hanno creato nuove istanze linguistiche che sono sfociate nelle lotte per i diritti dei carcerati, per l’abolizione dei manicomi, per l’affermazione dei diritti dei neri, degli  omosessuali, per quelli delle donne e oggi per la salvezza della natura e per il nostro ambiente o, per la conquista di un’identità linguistica diversa da quella proposta dai media o dalla tecnologia. Oggi la vera battaglia è unicamente questa ovvero: quella dei saperi locali contro gli effetti di potere del discorso globale riplobematizzando una serie di discorsi che apparentemente sembrano già conclusi e completi, ma che in realtà assoggettano creando dipendenza, ma soprattutto – ed è quello che sostengo da tempo – aprire all’interno di questi discorsi delle faglie, dei punti di rottura che producano lo scontro e dunque la nascita di un nuovo potere più consapevole di chi invece crede passivamente di non averne più. E’ la messa in pratica dei linguaggi della trasversalità: trasversali al linguaggio dei media, della politica, dell’economia, della morale che possano ridare dignità al silenzio rabbiosamente estraneo di chi è stato reso ed è tuttora muto.





[1] Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978,p.84;
[2] Michel Foucault, Microfisica del potere,Einaudi, 1979,pp139 e segg;

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