sabato 3 maggio 2014

Fenomenologia del corpo. Piove in treno




Certe mattinate fredde e buie d’inverno, ho pensato che nella mia esistenza agisse un principio di indeterminazione e che questa indeterminazione non derivasse da qualche imperfezione della mia coscienza, né dal fatto di credere che un qualche Dio potesse scrutare il cuore e i reni e delimitare così la mia fragile natura e l’illusione della mia libertà. Ieri mattina pioveva così tanto che sono arrivato già zuppo alla stazione. Quando arrivi, l’unica cosa che chiedi è che il treno arrivi presto e in fretta. Ho sciarpa, cappello, e guanti, fa freddo, l’ombrello gocciolante è l’ennesimo ingombro al goffo imbacuccamento invernale, insieme allo zainetto. Sulle banchine non c’è nessuno perché tira vento e siamo tutti assembrati come una colonia di pinguini sul pack antartico. Finalmente il treno arriva: è quello delle 6,15, con quindici minuti di ritardo da Sorrento, il ritardo ormai si sa è dovuto alla pioggia. Non ci chiediamo neanche più il perché ma, appena arrivato in stazione, ci accalchiamo per entrare nei vagoni per ripararci dalla pioggia e dal vento gelido e per potersi sedere e magari riaddormentarsi di nuovo fino a Napoli. Il vagone è già quasi pieno pochi posti sono vuoti. Viaggio da troppi anni per non conoscere il motivo di quella inaspettata sorpresa: i sediolini sono tutti bagnati, sul pavimento del vagone c’è una fanghiglia umida e scivolosa. Infilo in mio ombrello chiuso e bagnato tra due schienali, e con un cleenex asciugo il sediolino. Nel vagone fa lo stesso freddo di fuori, in più, i sediolini di fronte a quello dove sono seduto, quelli che delimitano lo spazio delle sedute dallo spazio tra un vagone e un altro, quelli finali per intenderci, poggiano su quello che io provo a definire un cassone, con una griglia, da questa si vedono le rotaie sottostanti e da questi arriva uno spiffero gelido che investe gambe e piedi. Ogni libertà umana viene distrutta in queste condizioni. Vorrei urlare ma non ho la forza. Inveire e protestare contro chi? Intorno relitti umani come me sono accucciati e dormicchiano e mentre sono attraversato da tetri e violento pensieri. A Moregine si libera un altro posto, mi alzo di scatto, lo conquisto e provo a addormentarmi. Fuori è ancora buio, solo a Torre Annunziata il cielo comincia a diventare più livido. Sto cominciando a prendere un po’ di calore. Le mani nei guanti le percepisco come un corpo che piacevolmente si adagia nella pelliccetta, per un momento penso di voler essere le mie dita e avvoltolarmi in quel caldo e rassicurante marsupio. La mia esistenza è indeterminata in sé, chiudo gli occhi e penso a tutte le baggianate retoriche di chi crede di edificarsi e liberarsi parlando di fede e omosessualità, di letteratura alta e spara sentenze, come se la sua esistenza fosse determinata dall’altezza di concetti definiti e da definire. A quell’ora io vorrei stare nel mio letto caldo sotto il piumone. L’esistenza non ha attributi, l’esistenza per lo meno la mia, non supera mai nulla definitivamente, altrimenti scomparirebbe la tensione che la definisce: l’esistenza non abbandona mai se stessa. L’esistenza è il corpo, l’unico contenuto fortuito delle nostre esperienze. Io sono quello che sono in quel maledetto treno solo se considero le mie mani, i miei piedi, la mia testa o il mio sesso che ogni tanto si risveglia su qualche fantasia fortuita pure quella: frammenti di materia avulsi dalla loro funzione. A Torre del Greco il vagone è stracolmo, il microclima interno è quello di una serra: molta umidità, ma anche molta puzza. Dai finestrini opachi di vapore acqueo arriva un fuori grigio e indistinto. Ho ancora cappello sciarpa e guanti, poi improvvisamente una goccia, due, tre. La gente alza la testa, incomincia a spostarsi e molti di noi aprono l’ombrello nel vagone e rimaniamo così fino a Napoli. L’eternità intesa come il potere di abbracciare e di anticipare gli sviluppi temporali in un’unica intenzione, delimitata dai fattori contingenti, è la definizione stessa della mia soggettività. Andasse al diavolo la presunzione di chi crede cha sta cambiando il mondo! Giovani parolai in erba crescono e non sanno che la loro libertà è il frutto della capacità fortuita di stare seduto in un treno con un ombrello aperto o di non esserci e di arrivare a destinazione con quaranta minuti di ritardo perché pioveva. Ieri mattina ho accumulato altri quaranta minuti a recupero, che non recupererò e quindi perderò soldi: questa è l’unica libertà che mi rimane. Mi vengono in mente alcune cose mentre bevo il caffè al bar della stazione, decidendo di perdere altre dieci minuti. Il verde passa per un colore riposante, il blu è ciò che sollecita da me un certo modo di guardare: il blu sembra cedere al nostro sguardo dice Goethe. Il rosso lacera, il giallo è pungente, ma solo perché dall’altro lato del banco, di fronte a me, attraverso il fumo aromatico della tazzina di caffè nel caldo del bar mi incanto a guardare la parete arcobaleno che sta dietro la macchina per il caffè.  

Nessun commento:

Posta un commento