Uccidersi per non aver saputo
reggere alla vergogna di vedere la propria intimità sessuale data in pasto al
web, ad estranei, ma anche ai propri parenti agli amici a chi si conosce ma al
quale non si dice tutto della propria vita, perché nessuno dice mai tutto circa
la propria vita e perché poi dovrebbe farlo? La giovane donna di Mugnano, in
provincia di Napoli, non ce l’ha fatta e si è impiccata con un foulard nel
garage della sua casa.
Un caso che ha a che fare con la
proliferazione delle immagini e sull’importanza che hanno assunto nelle vite di
tutti, ma anche su come si vive la sessualità in occidente, in Italia nel 2016.
Ma procediamo con ordine. Ho
sentito e letto dei soliti esperti, psicologi, sociologi, psicoanalisti ecc.
ecc. che c’è bisogno di educazione digitale, ho sentito sedicenti giornaliste
televisive annunciare il suicidio della giovane donna, usando un linguaggio di
circostanza ipocrita e conformista e dell’incauto comportamento avuto della poverina nell’ essersi fatta riprendere
mentre stava facendo sesso.
Allora a me viene da chiedermi che società è la
nostra dove si sbattono tette, culi, e
farfalle senza veli dappertutto, dove ognuno sa che tutti fanno del sesso
appena in età, e poi ci si uccide, solo perché gli altri hanno saputo o vengono
a sapere che tu hai fatto un video porno nella tua intimità, un video che fa
parte dei giochi sessuali che la sessualità a volte richiede: vedersi, farsi vedere,
mentre si fa l’amore è una forma di piacere che fa parte
del gioco dell’amore: gli antichi mettevano specchi nelle loro alcove sul letto
o intorno ad esso per moltiplicare quelle immagini e potersi vedere, oggi
abbiamo le video camere e allora? La madre dice che era ubriaca, come se certe cose che attengono alla sessualità, una o uno non potesse farle anche da sobrio.
Invece questa donna si è uccisa per la
vergogna, perché tutti hanno saputo che lei, mentre faceva sesso si era fatta
riprendere, ma anche perché il video l’ha mostrata mentre si dava da fare a
soddisfare i suoi desideri e quelli del partner. Mi chiedo anche se invece di
una donna fosse stato esibito o mostrato un uomo se le reazione sarebbero state
le stesse.
Spesso dico, quando parlo di
sesso, che gli anni ’70 sono stati gli anni nei quali i “discorsi sulla
sessualità” –per usare una espressione foucaultiana- sono stati anni
rivoluzionari e libertari, anni nei quali, al sesso veniva attribuito un ruolo
formativo nella struttura delle coscienze individuali, ovvero il sesso e la
sessualità, rappresentavano un punto di critica attraverso il quale l’individualità
si riconosceva nel sociale: non a caso esplose il femminismo, o i movimenti di
liberazione omosessuali.
Poi sono arrivati gli anni ’80: anni di culi e tette a
ogni ora del giorno e della notte, chi non ricorda Drive In? Il discorso
libertario e auto coscienziale del decennio precedente fu trasformato nel più
plateale consumo di corpi esibiti e la
sessualità divenne un grande affare commerciale: luoghi di incontro per
scambisti, disco e saune gay per acchiappanze facili, insomma cominciò l’arretramento
regressivo e degenerativo spacciato per libertà che ci fa arrivare fino al
2016.
Una libertà senza consapevolezza, una libertà senza educazione – e non
parlo di educazione digitale ma di educazione e basta, una libertà senza
cultura, insomma: una finta libertà o meglio una non libertà.
La mia tesi è che se questo
episodio fosse accaduto ad una trentenne degli anni settanta negli anni
settanta, questa, oltre a denunciare immediatamente chi aveva diffuso o esibito
le proprie performances sessuali, avrebbe immediatamente scritto un libro. Mi
vengono in mente i nomi di Erica Jong, di Linda Lovelance, o della nostra
grande Moana Pozzi, donne che hanno strenuamente sostenuto il diritto ad una
sessualità consapevolmente esibita o auto esibita, senza vergogna, senza
ipocrisie e soprattutto con grande coraggio civile.
La sessualità, vale la pena
ricordarlo è sempre infamante per una donna o per gli omosessuali, ma mai per i
maschi etero per i quali è sempre un grande vanto. Allora, questa povera
ragazza di Mugnano, bella, mora, con grandi occhi neri ha fatto quello che
fanno tutti oggi, ma che nessuno però ha il coraggio di dire: si fotografava e
si è fatta riprendere mentre faceva l’amore per il puro piacere di rivedersi.
Poi il video è finito in rete e a questo punto sono scattati i pesanti condizionamenti
di una cultura arretrata, maschilista e violenta, i sensi di colpa, la vergogna
di essere additata come cagna in calore, puttana e chi ne ha più ne metta. Le amiche
che si allontanano, magari li facevano anche loro i video, ma vale il motto
fascista antico del “ si fa ma non si dice”. Invece poteva bastare, la solidarietà, che tutte avessero detto e
allora? Cosa c’è di male? Ha fatto un video mentre faceva sesso, oggi che si
fanno video per ogni cosa, oggi che la riproduzione di immagini in movimento è
diventata la prassi quotidiana. Adesso ce lo facciamo pure noi il video per
solidarietà, adesso ci facciamo vedere pure noi. Ma questo non è successo e
Tiziana cantone si è ammazzata per vergogna, una vergogna legata ancora una
volta ad una concezione arcaica e solamente consumistica della sessualità.
Forse sarebbe veramente il caso
di riparlare di educazione civile di riaprire un discorso sulla consapevolezza
e autodeterminazione sessuale, interrotto negli anni settanta a bambini, adolescenti, giovani, che
confondono i piani percettivi di realtà e di immagini. Troppi hanno abdicato al
ruolo di educatori mentre genitori immaturi e narcisisti alimentano un
narcisismo maniacale dei loro figli in una deriva infantilistica della società
intera: siamo tutti pronti per un selfie, con le boccucce a cuore e i pollici
alzati, ma siamo pure tutti pronti a riprendere una violenza sessuale in un
bagno di una discoteca e postarlo subito su un social, perché l’importanza è
vedersi e farsi vedere.
Oggi tutti noi siamo esposti ad una tecnologia
sempre più potente e in questo procedimento espositivo, scatta un “dislivello prometeico”
– ossia il fatto che noi siamo inferiori a noi stessi a causa della frattura
sempre più ampia tra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità
immaginativa che ci impedisce di prendere coscienza delle conseguenze perverse
dei prodotti che creiamo, ovvero tutti quegli accadimenti e quelle azioni che –
senza una educazione- risultano essere nocivi per noi stessi. Arginare e
combattere questa onnipotenza tecnologica e questa aberrante deriva
narcisistica è il compito che ogni educatore e formatore deve prefiggersi di
attuare.
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