Mario Monti |
Per definire il senso di
rassegnata impotenza che attanaglia oggi quei cittadini della mia generazione
che un tempo si occupavano di politica o la facevano attivamente in partiti
operai, bisogna partire credo, da ciò che si definisce globalizzazione. Nel 2002
scrissi un libro per Franco Di Mauro Editore, con una prefazione di Aldo
Masullo, che si chiamava Etica e Globalizzazione, in quel libro si parlava di
crisi dell’etica e della comparsa di morali separate, morali diremmo oggi
deontologiche. A distanza di quattordici anni, non avrei mai pensato che, quel
termine che allora cominciava a fare la sua timida apparizione, travalicasse i confini dell’economico – dove era nato (
globalizzazione dei mercati) – e estendendosi pienamente al politico mettesse in crisi l’idea stessa di democrazia parlamentare e l’autorità degli Stati
Nazione. La globalizzazione sembra ormai essere diventato un processo integrale
irreversibile. Integrale nel senso che è diventata la forma – non soltanto
economica o tecnologica , ma anche logica e ontologica del mondo: quello che
sta avvenendo in Italia, sta avvenendo anche in altre nazioni europee e la
percezione di questa mutazione da noi si è cominciata ad avvertire col primo
governo Monti, fino a arrivare a quello attuale di Renzi, governi che sono
entrati in carica senza che i cittadini fossero chiamati a esprimere il voto
sugli stessi e che stanno tentando di trasformare in senso autoritario e
dirigistico la democrazia rappresentativa, ovvero: stanno trasferendo i destini
dello Stato Nazione nell’egida di ciò che Toni Negri – non senza molte ragioni-
definisce l’Impero: “L'Impero emerge al
crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell'imperialismo, l'impero
non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse.
Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che
progressivamente incorpora l'intero spazio mondiale all'interno delle sue
frontiere aperte e in continua espansione. L'Impero amministra delle identità
ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di
comando. I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono
stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale”[1].
Questo nuovo assetto disegna una nuova geografia del potere: dal sistema di
produzione fordista, meccanico e serializzato, siamo passati a un’economia
biopolitica, che lavora e manipola la vita sociale nei suoi meccanismi
d’interazione, comunicazione e affettività; dalla centralità degli stati- nazione
a una forma di sovranità globale, senza centro né confini, che giustifica ogni
suo intervento consacrandolo in nome di una pace perpetua e universale che però
è concepita e imposta sempre e solo dai dominatori. Allora, la crisi di cui
parlavo all’inizio, la crisi di tutti quei cittadini della mia generazione che
un tempo si occupavano di politica e in qualche modo tentavano di governare
anche opponendosi i processi socio economici, fa i conti con questo nuovo tipo
di dominio e contro questa forma di dominio sempre più assoluta si dovrebbe
tentare di costituire o organizzare poteri alternativi, forze di resistenza. Il
compito è arduo se non impossibile: troppe forze sono in gioco e ciò che
all’inizio ho chiamato “ forma logica e ontologica del mondo”, si connota
essere come la forma stessa del linguaggio e del pensiero. Intanto, chi oggi
crede di far politica si muove all’interno di questo universo con modalità
espressive che sono identiche o variano di pochissimo sia che si tratti di conservatrici sia se si tratta di
progressiste, l’utilizzo di programmi omologati agli interessi dell’unico
sistema possibile di dominio fa si che l’agone politico diventi solo un
paravento che serve a mascherare l’avvenuto insediamento di un controllo
sovranazionale. Tutti quelli che non si conformano a questa ontologia sono
ritenuti pericolosi, sovversivi, criminali o pazzi che attentano alla “democrazia
paravento” la cui unica finalità è quella di controllo sociale, se non
apertamente di dominio. Non vorrei
essere pedante, ma che questo sia un processo integrale e irreversibile è
provato dal fatto che anche quelle che potrebbero sembrare le forme di
resistenza più virulenta ad esso, si muovono all’interno delle sue stesse
coordinate adoperando il suo stesso linguaggio e fanno uso delle stesse armi
ideologiche e reali che pure contestano. La circostanza che formazioni come l’ISIS,
il califfato di al-Baghdadi, non solo traggano le proprie
risorse da giri finanziari interni all’Occidente, ma siano stati finanziati ed
armati dagli stessi americani indica che
bisogna guardare allo scontro in atto non come un conflitto tra sistema e anti
sistema, ma come un conflitto tutto interno al/e prodotto dall’unico sistema-
mondo e questo vale soprattutto sul piano dell’immagine. Non esistono due
rappresentazioni diverse e alternative, ma una lotta per l’egemonia nell’unico
orizzonte rappresentativo possibile: quello mediatico. Ora, se tutto ciò è
vero, vuol dire che è insensato delineare scenari politici, economici,
antropologici alternativi a questa forma globale che ha assunto il mondo. Questo
non soltanto per il loro carattere in effettuale, utopico e residuale, ma anche
perché le forme di neolocalismo identitario sono esse stesse il risultato
speculare della medesima globalizzazione che vorrebbero contrastare. Rispetto a
questo universo chiuso, la democrazia rappresentativa diventa solo una
formuletta per garantire lo status quo al dominio sovranazionale mondiale:
saltano le rappresentazioni mitopoietica della democrazia antica, quella greca
per intenderci, ma saltano anche quelle della democrazia moderna e le sue
degenerazioni, quali oligarchia e tirannide. La morale della favola è chiara:
avere a lungo rifiutato di governare i processi economici (in omaggio
all’ideologia della sua naturale autonomia, ovvero della “naturalità” del
mercato), avere lasciato briglie sciolte agli «spiriti animali» del
capitalismo, distruttori della coesione sociale, costringe alla fine ad
approdare all’estremo opposto: non soltanto al governo sociale-politico
dell’economia, ma all’adozione di politiche totalitarie, liberticide e
criminali. La cosa più grave, è che
questa aberrazione concettuale ha contagiato anche quelle forze che fino agli
anni ’70 avevano garantito una resistenza a questo sistema unico che cresceva e
spazzava via la solidarietà sociale. Se
ascolto un giovane - e per me la categoria va dai 15 ai 40 anni- non posso non constatare che essi diano per
naturale l’ordine di cose esistente. Grosse responsabilità sono da attribuirsi
alle classi dirigenti che governavano quelle forze, penso alla classe dirigente
post –Berlingueriana nel PCI, ma anche a quelle laburiste inglesi e alle politiche di Blair. È stato scritto di
recente a questo riguardo che in tutta Europa la maggior parte delle sinistre
ha rassegnato le «dimissioni dalla
propria funzione critica»[2]
e che «gli avvocati» che
rappresentavano la parte più vulnerabile e meno protetta della società non solo
«si sono mostrati incapaci di giocare
d’anticipo» rispetto all’offensiva neoliberista, ma hanno altresì deciso di
smantellare gli «impegnativi apparati di mobilitazione» (i grandi partiti
socialisti e comunisti) al fine di rafforzare «la divisione del lavoro tra rappresentanti
e rappresentati» e di riservare a sé (gli addetti ai lavori della mediazione
tra interessi) «il monopolio della politica» (lasciando al popolo «la cura
degli affari e dei piaceri privati» Ad ogni modo, vero o falso che sia
questo severo resoconto, sta di fatto che oggi in Italia ci ritroviamo in un
frangente della vita del paese non soltanto avvilente ma anche assai rischioso.
Dinanzi a chi non opti per il diniego della realtà (come sembra fare talvolta
un ceto politico ossessionato dagli imperativi dell’autoconservazione e forse
anche per questo intenzionato a varare ambiziose riforme costituzionali, la cui
portata urterebbe con una fragile legittimazione) si stende uno scenario
allarmante, l’immagine di un paese allo sbando, che sa di non potersi fermare
ma ignora la direzione da intraprendere. In termini di classe, il discorso
pubblico è tuttora – ovviamente – monopolizzato dalle forze dominanti,
nonostante i disastri provocati dal liberismo. E indiscutibilmente pesano, in
questo scenario, anche le gravi responsabilità dei media che pressoché
unanimemente rappresentano la crisi della democrazia sotto un’angolatura che ne
impedisce qualsiasi lettura critica. Naturalmente è vero che i processi di mutamento
storico-concettuali non sono mai lineari, ma forse mai come oggi si richiede
uno sforzo preminentemente filosofico
improntato ad una radicalità estrema che ridicolizzi e polverizzi i linguaggi
mediocri e asfittici che parlano e praticano i politici contemporanei.
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