In tempi di amicizia accordata sin troppo facilmente a colpi di mouse, un apologo sulla natura di questo sentimento è opportuno. Tanto più se la parabola riguarda un gigante letterario che, proprio all'amicizia, ha dedicato pagine rigonfie di splendore doloroso. Nel 1976, lo sconosciuto poeta cileno Roberto Bolaño, esule e ventunenne, fonda in Messico con un amico (lo sconosciuto poeta Mario Santiago Papasquiaro) l'infrarealismo, un movimento che si propone di minare l'establishment della poesia continentale. Nemico dichiarato: Octavio Paz. Il risultato, per i due, è una gloriosa discesa nei bassifondi del proprio tempo. In termini meno stucchevoli significa: marginalità, indigenza, e un futuro la cui negazione è lo slogan dell'anno successivo, quel 1977 in cui Bolaño lascia il Sud America per trasferirsi in Spagna. Un oceano di mezzo non raffredda i rapporti con Papasquiaro. I due, al contrario, diventano uno l'ossessione dell'altro. Ogni tanto si scrivono. Soprattutto si ritrovano nei sogni e nei pensieri più riposti. Nel 1997 Bolaño è ancora poco conosciuto ma è alle prese con il libro che ne farà il caso del decennio. A fine anno spedisce una lettera a Papasquiaro: "quando miglioreranno le mie finanze apparirò a casa tua una notte qualsiasi. E sennò fa lo stesso. Sto scrivendo un romanzo dove tu ti chiami Ulises Lima. Il romanzo si intitola I detective selvaggi". Bolaño non andrà mai a trovare Papasquiaro in Messico: quest'ultimo morirà in un incidente stradale il giorno dopo che al manoscritto de I detective selvaggi venga apportata l'ultima correzione, trasformandosi (malgrado entrambi) nell'oggetto sacrificale del suo miglior amico. Non è un colpo di mouse, ma un movimento più sottile e misterioso, dall'esito incerto, grazie al quale un bel giorno spalanchiamo a qualcun altro le porte del nostro destino.
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